lunedì 23 giugno 2014

Perché le persone fanno ciò che fanno?




INDICE

1. Analisi delle difese psicologiche
2. Come riescono le persone a farsi del male per proteggersi dal dolore?
3. Amore e paura
4. Ottimismo e distacco
5. Il dovere di essere qualcun altro
6. Un esempio
7. Sessualità e intimità
8. Irrazionalità individuale e sociale

Conclusioni





… un uomo più triste e più saggio
si levò il mattino dopo.
Samuel Taylor Coleridge



1. Analisi delle difese psicologiche

Ho fatto molta fatica a riconoscere l’estensione dell’irrazionalità nella vita delle persone e nella società, perché sono cresciuto (come tutti) con l'idea di vivere in un mondo normalmente "buono" (anche se imperfetto) e di dovermi impegnare per migliorarlo con la diffusione della “cultura” e con le lotte condivise. Ho impiegato anni per capire che la religione “normale” (quella del mio paese) era strana come le altre religioni, che la cultura “elevata” era piena di pregiudizi, che i rivoluzionari non erano in genere davvero rivoluzionari e che le persone normali manifestavano chiusure mentali molto simili a quelle delle persone con “problemi psicologici” diagnosticati.

I bambini sono troppo piccoli per contemplare la bellezza e per creare felicità con gli altri: hanno bisogno di ricevere amore per sentirsi al sicuro e sperimentare così l’unica felicità a loro consentita. I bambini non allattati da una madre che è depressa o che “deve lavorare”, non protetti da un padre che non c’è mai e magari accuditi da una sorella che vorrebbe essere accudita, sperimentano un dolore che non riescono a sopportare. Quindi si irrigidiscono e si illudono di non aver bisogno di nulla o di poter ottenere (coi capricci o con l'obbedienza o con le ribellioni) un po’ di attenzione. E dopo trent’anni si accontentano di guardare la TV o si identificano nel lavoro che svolgono o sviluppano l’ossessione di “mantenersi giovani” o si fanno corrompere per avere “successo” o cercano il “successo morale” cavalcando l’indignazione nei confronti degli altri.

Nel lavoro analitico che svolgo le persone vengono sollecitate a notare cosa hanno in mente prima di agire e in questo modo scoprono che quando non agiscono per obiettivi ragionevoli agiscono per evitare di sentire emozioni che potrebbero tollerare, ma che temono (fin dall’infanzia) di non poter tollerare. Queste esperienze mi hanno portato a considerare le azioni irrazionali non come semplici “errori da correggere” o "tendenze da controllare" o "patologie da curare", ma come l’esito di “strategie difensive” (inconsce) volte ad ostacolare il contatto con il dolore. Se (e solo se) tali strategie vengono capite possono essere modificate. Il lavoro analitico chiarisce che molti atteggiamenti e comportamenti si inseriscono in un progetto esistenziale costruito nell'infanzia che sacrifica l’espressione delle potenzialità personali.

Tutte le concezioni psicoterapeutiche condividono un equivoco e una illusione: l’equivoco consiste nell’idea che le persone normalmente siano “sane” e che solo in alcuni casi manifestino delle “patologie psichiche” determinate da qualche specifico fattore causale e l’illusione consiste nell’idea che particolari interventi “terapeutici” possano incidere su tali “patologie” ristabilendo nelle persone il normale stato di “benessere psicologico”. Nonostante questo “ottimismo terapeutico”, le persone non possono “star bene”, perché possono sentire “molto” (molto dolore e molta gioia) o sentire “poco” (poco dolore, poca gioia e strani “disturbi psicologici”). Gli indirizzi psicoterapeutici sono moltissimi e pretendono di essere “scientificamente fondati”, pur basandosi su teorie  diverse e inconciliabili. Di fatto, condividono solo la discutibile concezione generale delle “patologie psichiche” e delle “terapie psichiche”.
In realtà, le persone non agiscono in modi irrazionali a causa del loro passato o di ciò che hanno fatto gli altri, ma perché nel presente sono determinate a sentire poco e a "vivere poco" pur di non accettare il dolore della vita. Non possono, quindi, essere “guarite”, ma possono cambiare se comprendono le ragioni per cui fanno ciò che fanno.

Le persone si aggrappano a convinzioni irrazionali e accumulano tensioni, forme contorte di ostilità, ansia o confusione pur di non confrontarsi con il lato doloroso e non modificabile della loro esistenza. Organizzando la loro vita in modo da sentire “poco” nelle situazioni dolorose, finiscono per sentire poco anche nelle situazioni gioiose. Chiarendo in analisi le ragioni "difensive" per cui fanno molte cose inutili o dannose e recuperando il contatto emotivo con le esperienze mai affrontate e mai superate, le persone possono accettare il dolore della loro vita (facendo così un’esperienza non piacevole ma preziosa) e possono smettere di creare tensioni o sintomi inutilmente spiacevoli. Il lavoro analitico non porta invariabilmente a tali risultati, ma è concepito per renderli possibili. Il lavoro analitico è quindi analisi filosofica perché mette in discussione i modi di pensare, sentire ed agire irrazionali, ma è anche analisi psicologica perché favorisce la comprensione e l’elaborazione dei vissuti dolorosi.

L’analisi verte sulle "difese psicologiche" e quindi prende in considerazione le convinzioni irrazionali delle persone (come ad esempio, “non valgo niente”, “sono speciale”, “la vita è ingiusta”, “non so cosa voglio”, ecc.), gli atteggiamenti difensivi (l’accondiscendenza, l’arroganza, la competitività, l’invidia, il vittimismo, il distacco, l’invadenza, la svalutazione, ecc.), i desideri incomprensibili (quelli di “autoaffermazione”, di “appartenenza”, di “rassicurazione”, ecc.), le emozioni non corrispondenti alla realtà (il senso di colpa, la rabbia non costruttiva, l’ansia in assenza di pericoli, la depressione, ecc.), le rigidità muscolari croniche non dovute a disturbi fisici, l’immagine non realistica di sé, i progetti di vita inconsci distruttivi, le limitazioni o deformazioni del contatto emotivo ed anche eventuali sintomi. In altre parole l’analisi può portare ad un superamento di specifici disturbi, ma al prezzo di una rinuncia  alla pretesa di vivere senza dolore.

Le difese psicologiche vengono costruite nell’infanzia da bambini che si trovano a gestire da soli esperienze troppo dolorose per le loro capacità. I genitori, normalmente, con le migliori intenzioni (coscienti), si dedicano inconsapevolmente a respingere, a "plasmare" o a ignorare i figli e questi, non potendo tollerare un dolore così grande, fanno l’unica cosa che da soli riescono a fare: evitano di mantenere il contatto emotivo con la realtà. Imparano cioè a chiudersi, ad arrabbiarsi, a confondersi, ad evitare di esprimersi, a dissociarsi ed anche a detestarsi. Crescono in conflitto con loro stessi, poco recettivi nei confronti delle loro emozioni e poco empatici nei confronti degli altri. Costruiscono un progetto esistenziale che si articola in un insieme di convinzioni, atteggiamenti, illusioni e pretese che limitano il contatto emotivo con la realtà. In certi momenti critici della loro vita, anche a distanza di anni, le persone possono produrre sintomi particolari che non sono però elementi isolati: sono conseguenze di un modo di vivere limitato e limitante.

I clienti (e molti psicoterapeuti) considerano i sintomi come “il problema da risolvere", ma, in questo modo trascurano il terreno che li ha prodotti. Trascurano, in pratica il problema costituito proprio dalla normalità. La normalità, purtroppo, è caratterizzata a livello personale da atteggiamenti irrazionali (superficialità, indifferenza, ostilità ingiustificata e timori incomprensibili) e a livello sociale da sfruttamento, violenza, autoritarismo, conformismo, ideologie laiche e religiose che costituiscono un diffuso oltraggio alla razionalità della specie umana. Il lavoro analitico consente, quindi, di chiarire in un ambito circoscritto ciò che alcune ricerche psicologiche e antropologiche e alcune esperienze educative libertarie hanno già documentato: esiste uno scarto notevole fra il potenziale delle persone (sul piano dell’intimità, della socialità e della creatività) e la realtà terribile della normale vita delle persone e delle normali forme di convivenza sociale. I fenomeni sociali ovviamente non vanno analizzati psicologicamente, ma l’accettazione di assurdità socialmente e culturalmente consolidate da parte delle tante persone che formano le “masse” deve essere oggetto di analisi psicologica.

In un certo senso il lavoro analitico è “un imbroglio”: mentre le persone inizialmente vogliono solo sbarazzarsi di certi disturbi circoscritti e continuare a vivere nei consueti modi limitati e distruttivi, l'analisi mette in discussione proprio tali modi di vivere "poco".
Le psicoterapie sintomatiche si propongono di soddisfare questo capriccio e per questo non funzionano oppure, se funzionano, lasciano le persone nella loro condizione di insensibilità e di lacerazione interna. Il lavoro analitico ha invece un altro scopo: chiarire che i disturbi sono solo la conseguenza di un più generale modo di vivere che può essere compreso e modificato. Il filo conduttore del lavoro analitico ha come punto di partenza i disturbi percepiti come tali dai clienti e si sviluppa con l’analisi degli atteggiamenti difensivi e con il riconoscimento dei vissuti dolorosi non integrati. L'analisi mira a chiarire le ragioni per cui le persone fanno ciò che fanno (anche quando non credono di fare qualcosa e credono di essere "deboli" o "malate"). L'analisi non mira (come l'etica) ad adeguare le persone ad un modello ideale e non mira (come la psicoterapia) a "guarirle".

Consideriamo un comportamento irrazionale e distruttivo: X reagisce con molta rabbia ad una critica di Y. Chi adotta un punto di vista morale pensa che X abbia sbagliato e che si sarebbe dovuto controllare. Chi adotta un punto di vista psicoterapeutico pensa che X abbia “esagerato” (sia uscito dalla norma) a causa dello stress o di un’infanzia infelice e pensa che X vada curato. In realtà, X confonde le critiche (sempre utili) con le svalutazioni (offensive) perché fin dall’infanzia si è illuso di diventare “accettabile” diventando “impeccabile”. Tutti i bambini sono accettabili, e X non era rifiutato per proprie "colpe", ma perché i genitori non riuscivano a vedere la sua bellezza e a provare amore e disponibilità.
L’idea etica secondo cui X si sarebbe dovuto controllare è assurda, perché con la confusione fra critica e svalutazione, ed anche con la rabbia, X si sta già controllando: blocca la consapevolezza del proprio antico dolore. Egli ha bisogno di capire e di accettare il proprio dolore, di piangere, di mettersi in pace con sé. Solo dopo questo cambiamento apprezzerà le critiche e reagirà solo alle svalutazioni (in modi appropriati).
Anche l’idea psicoterapeutica è errata: X non agisce oggi a causa della sua infanzia, così come il governo italiano non fa certe leggi a causa dell’invasione degli Unni. L’infanzia di X è finita da un pezzo, lo stress non c’entra e ciò che rende X tanto suscettibile è l'illusione che ha costruito nell’infanzia e che inconsapevolmente mantiene nel presente: l’illusione di poter meritare o conquistare l’amore con (inutili) sforzi.
X non ha bisogno di pentirsi e controllarsi e nemmeno di essere “curato”, ma ha bisogno di capire che sta negando il dolore con cui può invece “fare pace”, dato che ha da tempo sviluppato capacità che da bambino non aveva.

L’analisi dell’intenzionalità difensiva conduce al confronto con una sofferenza profonda che in parte è un "vissuto" antico che permane nel presente e in parte è generata da esperienze attuali. Il dolore non può essere né curato né compensato, ma può essere “elaborato” e “integrato” attraverso il lavoro del lutto (inteso in senso ampio). L'analisi può quindi essere concepita come un processo di conoscenza e di cambiamento che riguarda la complessiva concezione dell’esistenza personale. Tale cambiamento non è l’effetto di interventi “terapeutici”, ma consiste in una ridecisione maturata dalla persona stessa, sulla base delle conoscenze acquisite e delle esperienze emotive fatte.

Le persone non sono consapevoli di fare tante cose per "sentire poco” anziché per vivere con lucidità e contatto emotivo. Normalmente non sanno perché fanno ciò che fanno e non vogliono saperlo. Il fatto che chiedano aiuto è un buon punto di partenza per una ricerca che può portare ad accettare il dolore inevitabile e a recuperare la capacità di gioire davvero e soprattutto di essere felici. Con il termine “felicità” non mi riferisco ad un generico benessere o alla gioia o a una grande gioia. Uso il termine “felicità” per quello stato d’animo di fondo che riflette il semplice piacere di esserci, di pensare e di sentire. In base a tale definizione possiamo essere felici in momenti gioiosi e anche in momenti dolorosi, se siamo in contatto con la gioia e con il dolore quanto basta per sapere con certezza che per noi tali emozioni sono preziose, che noi siamo preziosi e che la vita in cui siamo immersi è preziosa.

Ad alcuni queste parole possono sembrare facilmente condivisibili o quasi scontate, ma non sto dicendo nulla di scontato. Chi è incline ad accettare l'idea che molti atteggiamenti irrazionali coprano la consapevolezza del dolore, in genere pensa agli atteggiamenti irrazionali degli altri, non ai propri. Pensa alle liti chiassose dei vicini di casa, ma non alla svalutazione silenziosa che spesso manifesta con i figli o il/la partner; pensa al fanatismo dei terroristi, ma non ai "valori" che afferma con intransigenza, pensa ai sistemi totalitari del passato, ma non al totalitarismo della TV, e così via. L'idea che l'irrazionalità (quella della cultura condivisa o delle difese psicologiche individuali) soffochi la consapevolezza del dolore è semplice, ma non è affatto ovvia. 


2. Come riescono le persone a farsi del male per proteggersi dal dolore?

Una giovane donna, che chiamerò Wilma, mi propose nel primo colloquio di aiutarla a separarsi in modo da non creare troppi problemi ai figli (di sette e nove anni) oppure a ricostruire una convivenza non conflittuale con il marito. Le tensioni famigliari si erano aggravate quando il marito si era dichiarato poco disponibile a fare un terzo figlio perché, secondo lui, Wilma viveva un “idillio” esasperato con i due figli che si traduceva in un crescente disinteresse per la relazione di coppia.
Inizialmente parlammo dei “difetti” del marito (che chiamerò Renato) e Wilma riconobbe la propria ostilità nel descrivere la scarsa "sensibilità" di questo uomo “all’antica”.

GF. Tutti hanno dei limiti o dei difetti. M. L. King ha sottovalutato l’impegno per l’ambiente e forse Fausto Coppi era scadente come sciatore. E’ facile trovare i difetti nelle persone, ma resta il fatto che con le persone che amiamo e/o desideriamo la rabbia non è mai ragionevole. Le donne che danno un calcio nelle palle di un uomo sessualmente molesto fanno un gesto rabbioso più che comprensibile, poiché da tale persona desiderano solo essere lasciate in pace. Quelle che (magari in senso figurato) fanno la stessa cosa con un compagno con cui hanno un legame affettivo non risolvono niente, proprio perché non desiderano essere lasciate in pace, ma essere trattate bene e amate. Questi obiettivi non si conseguono con la rabbia (cioè con la lotta) e quindi in tali casi la rabbia serve solo a non sentire il dolore di una mancanza. Superata la rabbia, resta la possibilità di accettare l’altra persona come partner, nonostante i suoi limiti, o di scegliere una separazione, ma tale decisione può essere presa con mente lucida e cuore aperto solo se si accetta il dolore che ognuna delle due possibilità comporta e che la rabbia impedisce di sentire e di elaborare.

Queste osservazioni aiutarono Wilma a non considerare ovvia la propria rabbia silenziosa e, a volte, pungente. Un po’ a fatica Wilma ammise poi di contribuire alle reazioni difensive di Renato negandosi sessualmente e negandosi anche sul piano più ampio dell’affettività.
Nelle prime sedute individuammo due temi principali da chiarire: il conflitto di Wilma con la propria femminilità e l’esasperazione del suo ruolo materno in famiglia. Wilma ogni tanto comprava vestiti belli e “femminili” che però finiva sempre per non indossare; inoltre amava sinceramente i due figli, ma li seguiva con un’attenzione ed un entusiasmo che risultavano eccessivi per i figli o almeno per il maggiore. Il marito non era concepito come il compagno con cui condividere la vita, ma come la brava persona che aveva fornito del buon seme per l’opera che costituiva l’unico scopo della vita (di Wilma).
Chiarimmo che Renato trovava insopportabile essere frustrato proprio con pretesti relativi ai figli che sinceramente amava e di cui voleva occuparsi. Da persona semplice non voleva capire tutto e dialogare su tutto, ma voleva che la dimensione dell’intimità venisse alimentata quanto la collaborazione genitoriale. Da persona “all’antica” temeva di piangere per il dolore che provava e quindi finiva per sbottare e per fare ogni tanto qualche sfuriata (senza comunque superare certi limiti). Probabilmente se fosse stato un po’ più in confidenza con le proprie emozioni avrebbe pianto di più e avrebbe chiesto la separazione. Ora, l’idea di un terzo figlio gli risultava più una minaccia che un invito ad una complicità e ad un’intimità di coppia.
Wilma aveva ben chiaro ormai che contribuiva a tirar fuori il lato peggiore di Renato e che le sue provocazioni nei confronti del marito avevano qualche collegamento con il fatto di essere così legata alla madre (donna, peraltro acida e poco generosa sul piano affettivo).
Riporto ora una seduta del sesto mese di analisi. Il lavoro svolto sul rapporto fra Wilma e la madre aveva già allentato  la tensione con Renato, ma il desiderio di un terzo figlio era ancora presente.

W. Le considerazioni già fatte mi sembrano sensate, ma continuo a sentire che vorrei un altro figlio.
GF. Cosa ti entusiasma maggiormente nell’esperienza della maternità? La gravidanza, le nausee, il parto, il cambiare i pannolini, l’allattamento, lo svezzamento, i primi passi o il fatto di non poter fare tante cose finché il figlio è piccolo?
W. Mentre elencavi queste cose, che sono quasi tutte delle seccature di cui non ho bisogno, ho fatto un pensiero: il bambino ha bisogno di me e io posso rispondere ai suoi bisogni e soddisfarli.
GF. Per essere utile agli altri potresti anche fare qualche ora di straordinario e mandare i soldi ad una associazione di volontariato! Perché senti questo “bisogno” di un altro figlio? I figli sono una cosa bellissima, ma non sono una “cosa” di cui si possa “aver voglia”. Chiedono moltissimo e non danno in cambio altro che la loro bellezza e non diventano una “proprietà personale” dei genitori. Io capisco che si possa provare amore i bambini e che ci si possa sentire disponibili a fare di tutto per il loro bene (non bisognosi di fare cose per loro), ma non capisco perché tu non senta la stessa disponibilità nei confronti di Renato.
W. Ho capito. Forse temo di lasciarmi andare con una persona adulta e autonoma.
GF. E cosa temi da un adulto che non temi da un bimbo?
W. Nell’intimità con un adulto prima o poi finirei per sentire il bisogno di chiedere … di accoccolarmi come una cucciola per sentirmi protetta.
GF. Trova il “sottotitolo” di questa immagine che hai appena visto.
W. “Tienimi con te” [sorride].
GF. Niente sorrisini: parliamo della tua vita, che è una cosa seria. Vuoi fare un piccolo lavoro?
W. Sì.
GF. Immagina di ripetere la tua frase (“Tienimi con te”) ad un neonato. Ripetila come se meditassi con questo mantra.
W. [Mentre ripete mentalmente il suo “mantra” si commuove].
GF. Ora, immagina di essere tu la bambina piccolissima che hai visto e di stare in braccio ad una persona adulta a cui ripeti le stesse parole.
W. [Mentre ripete mentalmente le parole, si irrigidisce, stringe i denti e non è più commossa].
GF. Cos’hai sentito nei due lavori svolti?
W. Facendo il primo lavoro ho sentito tenerezza. Facendo il secondo lavoro ho sentito una distanza, come se la persona che mi teneva fosse “lontana”. Ho avuto paura a stare in quella "cosa".
GF. Lo so. Dovremo tornarci se vorrai metterti in pace con questo bisogno, che non è certo un bisogno di oggi, ma che è ancora presente ed è doloroso. Però ora sai che per non sentirti vulnerabile respingi Renato, fai la super-mamma con i tuoi figli e pensi sempre al terzo figlio. Non solo rischi di creare fratture (che potrebbero diventare insanabili) con il tuo compagno, che è anche il padre dei figli che hai già, ma rischi in futuro di essere “troppo presente” quando i figli cominceranno ad avere bisogno di autonomia.

Un cliente, che chiamerò Antonio, aveva capito bene che i suoi “disturbi psicofisici” non erano “causati” dalla sua “depressione”, ma che egli deprimendosi (con o senza sintomi psicofisici) restava arrabbiato con tutto e tutti, senza vere ragioni. Nei momenti in cui sentiva il bisogno di piangere, a volte si lasciava andare (solo un po'), ma spesso si anestetizzava arrabbiandosi e, purtroppo, prendendosela con qualcuno (soprattutto con la sua compagna, che chiamerò Piera). Lo sapeva, ma aveva mantenuto questa tendenza. Stava quindi meglio, ma non come avrebbe potuto, perché comunque limitava la consapevolezza del proprio dolore e non si sentiva mai felice. Utilizzava sintomi più circoscritti e “normali” (le inutili discussioni anziché i misteriosi “disturbi psicofisici”), ma non faceva una vera svolta.
In questa fase del lavoro mi racconta di aver avuto un altro scontro con Piera che, tra l’altro, è molto brava nel procurargli frustrazioni o nell’accusarlo pretestuosamente quando ha problemi con i genitori, a cui è molto attaccata. Nella seduta che voglio riportare, Antonio mi comunica di “esserci ricascato”.

A. Ho abboccato all’amo. Sapevo che lei voleva la guerra e l’idea che scaricasse su di me le sue frustrazioni mi ha fatto imbestialire.
GF. No: tu hai preferito imbestialirti piuttosto che …
A. Piuttosto che accettare che “se ne era andata un’altra volta”. Però, c’è un limite a tutto quello che si può accettare. Quando Piera rompe le palle è davvero insopportabile.
GF. Il punto è un altro: la rabbia è lotta e la lotta serve a respingere o ad ottenere qualcosa. Tu ti arrabbi con lei e non ottieni che si calmi. Al massimo ottieni che lei si allontani di più, ma ciò che vuoi è averla vicina. Quindi la tua rabbia, rivolta ad una persona che ami e desideri è una fesseria. Serve, ma solo come difesa. Non cambia Piera, ma cambia solo la tua capacità di sentire, perché con la rabbia ti dissoci dalla consapevolezza di un fatto doloroso: lei ti vuol bene, ma quando ha paura di sentire un dolore profondo, forse un dolore molto antico, ti tradisce. Sì, ti tradisce. Non scappa con un marinaio russo, ma con le proprie difese psicologiche. Torna “in famiglia”. Tu puoi scappare come lei e peggiorare le cose oppure restare presente e almeno ridurre i danni. Puoi anche lasciarla, ma non con rabbia, perché lei non è una seccatrice di cui vuoi solo liberarti, ma una compagna con cui stai bene se non vieni aggredito. Le coppie dovrebbero separarsi, se proprio è il caso, solo quando hanno raggiunto un equilibrio fatto di rispetto e di affetto.
A. Lo so. Ne parliamo da tempo, però, oltre un certo limite non ce la faccio a vivere senza rabbia.
GF. Balle! In passato dicevi di “non farcela” a mantenere un’apertura che ora è per te abituale. Puoi continuare ad accettare solo in parte i tuoi sentimenti, oppure puoi permetterti di sentire tutto. Tu sai benissimo, per le esperienze già fatte, che il superamento del limite che ti dai comporta altro dolore. Comporta però un dolore che già ti appartiene, dal momento che tu ami e desideri proprio quella donna.
A. Ma insomma, non posso piangere sempre!
GF. Questo è terrorismo psicologico. L’alternativa a piangere una volta al mese, qui, con me perché non ti lascio in pace per un’ora, non è piangere “sempre”, ma piangere quando ne hai bisogno.
A. Oltre quel limite però …
GF. Cosa senti?
A. [Non mi risponde e si commuove. Trattiene il pianto, ma sente qualcosa e smette di polemizzare.] Perché uno aspetta trent’anni per trovare la donna giusta, ci vive assieme e poi deve tornare a quella solitudine?!
GF. Quale?
A. Lo sai tu e lo so io. Io non so se voglio sentirla tutta.
GF. Questa è una decisione tua. Però almeno ora è chiara la situazione. Non è vero che oltre un certo limite non ce la fai, come nel sollevamento pesi. Tu stabilisci che oltre un certo limite preferisci interrompere il contatto emotivo. Se così sei felice, puoi rendere definitiva questa decisione. Di fatto non stai bene e perdi dei pezzi della tua vita; pezzi dolorosi, ma anche pezzi che è un peccato buttare via e che un giorno potresti rimpiangere.
A. Non è facile.
GF. Lo so.

La seduta che sto per riportare mostra che non solo certe emozioni possono essere irrazionali e difensive, ma che le stesse sensazioni possono essere “attivate” o “distorte” quando una persona si sta difendendo da vissuti dolorosi ancora temuti.
Una studentessa che chiamerò Sonia, vive attualmente con un ragazzo in un appartamento con alcuni amici. In questa prima relazione “impegnativa” ha provato delle sensazioni nuove che non si spiega: sensazioni di fastidio quando il ragazzo (che chiamerò Enzo) la tocca o la cerca sessualmente. Tali sensazioni contraddicono il fatto che quando Sonia non si sentiva ancora “legata” ad Enzo provava molto piacere nel contatto fisico e sessuale con lui.
GF. In pratica reagisci a lui come ad un “vecchio bavoso” o al tipo che importuna le donne sull’autobus.
S. Sì. Però Enzo è giovane ed è un bel ragazzo. Ha sempre saputo come toccarmi e non è cambiato. Quelle sensazioni mi disturbano nei rapporti sessuali e a volte mi portano ad evitare i rapporti. Ciò vale anche per degli impulsi di rabbia, che magari non manifesto perché non hanno senso, ma che sento.
GF. Qui puoi “tirar fuori” questa rabbia e questo disgusto senza timore di alcuna conseguenza irreparabile. Ti va di lavorare?
S. Va bene.
[Senza scendere nei particolari, posso riassumere che in questo lavoro Sonia esprime molta ostilità verbale e fisica nei confronti di Enzo. Grida insulti, lo respinge, immagina di colpirlo dando pugni sul materassino. Poi sente che la rabbia ha come epicentro la bocca. Allora morde un tovagliolino di spugna gridando quello che le viene in mente. Ad un certo punto si ferma e mi parla.]
S. Non stavo più mordendo Enzo, ma mia madre e non volevo distruggere con i denti, ma sentivo il bisogno di tenere qualcosa che mi sfuggiva.
Invito Sonia a ripetere queste parole alla madre e, rappresentando la scena, Sonia piange.
S. [Dopo essersi acquietata] Io non mi sono mai sentita protetta. Poteva sempre succedere di tutto e io non ero mai al sicuro. Mai. Ora capisco perché sono ostile ad Enzo. Non è ciò che fa che mi irrita, ma ciò che non può fare: non può “proteggermi”. Da quando il rapporto si è consolidato, anche la mia possibilità di sentire cose più profonde è cresciuta. Ciò mi rende vulnerabile.
Nelle sedute successive analizzammo altri aspetti della strategia difensiva di Sonia, ma dopo questa seduta la relazione sessuale migliorò.

Molte persone impoveriscono, complicano o interrompono una relazione di coppia senza sapere perché o credendo di saperlo. Convivono con il/la partner per anni, magari raccontandosi che la passione della gioventù inevitabilmente si riduce “a causa” del tempo che passa, della convivenza, dei figli e di mille altre cose assolutamente irrilevanti. A volte cercano in un’altra relazione ciò che non si permettono di sperimentare nella relazione consolidata o inventano mille spiegazioni per il fatto di “non poter” lasciare il/la partner. Quante persone evitano di cambiare lavoro o tipo di vita, raccontandosi che non riescono a cambiare nulla, anche se potrebbero cambiare molte cose? Quante persone vedono crescere i figli senza tentare di conoscere il loro "mondo" e magari si illudono di avere un buon dialogo con loro? Quante persone poco disponibili ad amare si raccontano di stare male perché non si sentono amate? 
L’irrazionalità difensiva si manifesta sia nei comportamenti distruttivi, sia nelle “spiegazioni” inventate per giustificare tali comportamenti. Tale bisogno di non capire e non sentire crea molte sofferenze nelle relazioni interpersonali, ma quando genera ideologie irrazionali causa veri disastri. La qualità della vita, dal mio punto di vista, non è insoddisfacente quando non corrisponde ad un ideale astratto, ma è insoddisfacente quando non corrisponde alle potenzialità personali. Poco conta se una persona non ha fatto un’importante scoperta scientifica o non ha vinto una medaglia alle Olimpiadi; conta che abbia fatto tutto ciò che poteva per vivere la propria vita. Questo è indispensabile per morire senza rimpianti.

In questa prospettiva, capire perché le persone fanno ciò che fanno non ha nulla a che fare con la scoperta dei “misteri della psiche”. Purtroppo, la psicoterapia è nata proprio in seguito ad una curiosità di questo tipo. Freud, con la freddezza di un entomologo cercava di individuare strani “complessi” nei suoi “pazienti” e i suoi colleghi e discepoli hanno collocato le difficoltà delle persone in altri quadri di riferimento teorici (o pseudoteorici) poco “umani”. Vite reali incasellate ed etichettate, ma non realmente comprese. Io non cerco di fornire “interpretazioni” ai miei clienti, ma cerco di farmi spiegare da loro perché agiscono in certi modi: negli esempi riportati Wilma mi ha spiegato che si focalizzava sul ruolo materno per non provare il bisogno di chiedere, Antonio mi ha spiegato che si arrabbiava per non piangere, Sonia mi ha spiegato che provava fastidio per non sentirsi vulnerabile.
Le persone normalmente soffrono in modi confusi, rabbiosi e ansiosi e quindi soffrono superficialmente. Preferiscono questa (inutile) sofferenza perché la possono “gestire”. Fanno un cattivo affare, ma fanno ciò che hanno deciso di fare nell'infanzia, quando non potevano sopportare la solitudine e il "vuoto".

Tutte le persone sono capaci di amarsi e di amare, ma in genere cercano di non sentire un dolore che da sempre fa parte della loro vita e cercano una felicità che è possibile solo ai bambini tenuti fra le braccia dai “grandi”. Trascurano il fatto che vivendo con persone che possono essere più anziane o più giovani, ma non “più grandi”, non possono più trovare appagamento per il loro antico bisogno di sicurezza. Possono sperimentare sintonia, ma non ricevere accudimento. Solo se accettano il loro dolore per una mancanza irreparabile e definitiva scoprono che non possono più morire di dolore. Quando le persone “sono ancora là” (nel passato) lasciano scorrere la vita senza assaporarla e senza comprenderla.


3. Amore e paura

Le persone fanno ciò che fanno per amore o per paura. Quando agiscono per amore (di se stesse o di altre persone) riescono facilmente a spiegare le ragioni per cui agiscono, mentre quando agiscono irrazionalmente non sono coscienti delle ragioni per cui fanno ciò che fanno.
La paura (nelle sue varianti che vanno dall'ansia al panico) è un'emozione importante perché ci consente di evitare o, se necessario, affrontare in modo efficace delle situazioni oggettivamente pericolose. Purtroppo, in moltissimi casi la paura viene sperimentata in situazioni che non sono affatto pericolose (come ad esempio nelle fobie o nell'inquietudine delle persone intossicate dai pregiudizi). Le paure irrazionali sono intenzionali, cioè rientrano in una strategia difensiva con cui si cerca di temere qualcosa pur di non accettare che l'eventualità temuta si è già verificata. La cosa non è tanto strana: io vorrei temere per la salute del mio cane, ma purtroppo ho il ricordo doloroso della sua morte e non posso né temere la sua morte né gioire per sua presenza. La paura è spiacevole ma è un'emozione che "include" la speranza, mentre il dolore si sperimenta quando una mancanza è riconosciuta e accettata. Di fronte alla paura irrazionale i moralisti si indignano e incitano ad avere "coraggio", mentre gli psicoterapeuti cercano di scovare le "cause" della "patologia" e di trovare interventi "terapeutici" efficaci.

In quanto esseri razionali preferiamo sapere come stanno le cose piuttosto che inventarci paure e dissociarci dalla consapevolezza di un dolore, ma da bambini non potevamo gestire il dolore e quando era troppo intenso dovevamo "inventarci qualcosa" per non sentire la disperazione, cioè la mancanza di speranze. I bambini, infatti, possono piangere ed elaborare il dolore solo con il sostegno dei genitori. In assenza di tale sostegno si dissociano. Se vengono rifiutati proprio dai genitori, quindi, si difendono negando il bisogno d'affetto oppure illudendosi di aver sbagliato qualcosa e quindi di poter riconquistare l'amore comportandosi "nel modo giusto".  Le difese ansiose possono essere molto diverse, ma mantengono viva nei bambini la speranza: quella di poter essere "finalmente" apprezzati in seguito ad un successo, o accuditi in seguito ad una malattia, o notati per il fatto di "non disturbare" o di comportarsi "da grandi" o di sembrare "asessuati" o "normali"  o "speciali" o "strani" e così via. Tali speranze sono ovviamente illusorie perché un bambino non può essere amato perché "serve a qualcosa": se viene "considerato" solo perché è capace di fare un salto mortale capisce benissimo che i genitori amano lo sport ma non lui.  Egli capisce benissimo questo fatto, ma non può accettarlo perché tale fatto è molto doloroso. Quindi, preferisce illudersi di diventare amabile dimostrandosi un grande atleta. Tale illusione lo protegge dal dolore, ma genera un'ansia (apparentemente) incomprensibile prima di ogni gara.
Quando proviamo paura in presenza di un reale pericolo ci stiamo curando di noi o di altre persone, mentre quando proviamo una paura irrazionale stiamo cercando di non sentire un dolore che è già "nostro" e trascuriamo o danneggiamo noi e gli altri. Tutte le difese psicologiche sono strategie difensive costruite nell'infanzia e mantenute inconsciamente negli anni successivi.

Poiché normalmente i bambini subiscono rifiuti che, anche quando non sono "gravi", sono intollerabili per le loro limitate capacità, da adulti continuano a sentire un bisogno di accudimento che non è più un reale bisogno. Per questo tante persone desiderano essere "amate" (nel senso di "rassicurate"),  o desiderano "affermarsi" o desiderano dimostrare che non hanno bisogno di nulla. Tutti i comportamenti irrazionali (ma anche le convinzioni, i desideri e le emozioni irrazionali) soffocano vissuti dolorosi utilizzando qualche forma di paura o di rabbia. Anche la rabbia irrazionale, infatti, presuppone l'idea che una lotta possa far conquistare "la salvezza".
Tutte le svalutazioni, le conflittualità e le violenze irrazionali (modeste o gravi) proteggono da un dolore che è temuto come nell'infanzia, ma che solo nell'infanzia era intollerabile. L'etica e la psicoterapia, in modi diversi, disconoscono l'intenzionalità difensiva dei comportamenti irrazionali. Per i moralisti la malvagità è "attraente" e noi "dovremmo" contrastarla ascoltando la "voce della coscienza", mentre per gli psicoterapeuti i disturbi psicologici sono "patologici" e possono essere curati. In entrambi i casi, l'irrazionalità non è riconosciuta come una strategia difensiva inconscia.

Gli adulti sono in grado di gustare ogni gioia e di piangere ogni dolore. Purtroppo, la paura (infantile) del dolore rende gli adulti inclini a vivere "poco". Noi umani, se completiamo in condizioni soddisfacenti il nostro sviluppo psicologico, abbiamo la capacità di dialogare silenziosamente con noi stessi e tale capacità ci protegge dal “senso di solitudine” sperimentato dai bambini poco amati. Disponiamo di tale capacità anche se essa è normalmente limitata dalle difese psicologiche.
Se mentre riparo una finestra mi dico “Proviamo in questo modo!”, oppure “Ecco la soluzione!”, oppure “Peccato, non riesco a capirci niente”, mi incoraggio, mi apprezzo se ho successo, mi coccolo se sono in difficoltà e comunque mi faccio compagnia. Se invece mi dico “Non ce la farai mai perché sei il solito incapace!”, mi faccio una brutta compagnia e probabilmente ripeto le parole svalutanti di un genitore.
I bambini non hanno un dialogo interno. Gradualmente diventano autocoscienti, capaci di interagire e infine di parlare con se stessi. Il processo è lento e, prima della sua conclusione, il dialogo con i genitori è indispensabile. Se i genitori, anziché offrire con il “dialogo esterno” l’antidoto alla solitudine o al vuoto, creano esperienze dolorose che il bambino non può gestire, rendono impossibile il passaggio dal dialogo esterno rassicurante al dialogo interno rispettoso.
In analisi si cerca di portare le persone a parlare con se stesse dei loro desideri e quindi anche del loro dolore. Si oppongono e resistono, ma quando arrivano al loro dolore si accorgono di avere la capacità di elaborarlo, di non morire, pur sentendosi morire a volte. A quel punto non sentono più il “bisogno degli altri”, ma solo il (comprensibile) desiderio di incontrare gli altri.

Più le persone scoprono gli aspetti delicati e profondi della loro vita interiore, più rispettano le altre persone. In breve, la base dell’amore per gli altri è l’empatia: se riusciamo a considerare un’altra persona come un soggetto anziché come un oggetto, finiamo inevitabilmente per trattarla con rispetto. Se invece non sentiamo la ricchezza della nostra vita emotiva, come possiamo pensare che la vita di un’altra persona possa essere preziosa? Se abbiamo paura di piangere e di accettare il nostro dolore, come possiamo pensare che le persone care siano vulnerabili e da trattare con cura? E come possiamo coinvolgerci realmente (non "ideologicamente") nella dimensione sociale?
Il lavoro analitico, se viene svolto positivamente, non libera le persone dal dolore, ma dalla paura del dolore. Il progetto inconscio di vivere "poco" per non soffrire, divenuto conscio e valutato come irrazionale e distruttivo, viene facilmente sostituito dal progetto di vivere per esprimere le potenzialità personali.

La psicoterapia non ha prodotto riflessioni volte a chiarire ciò che la normale irrazionalità soffoca e soprattutto riflessioni volte a proteggere i bambini e le bambine da esperienze famigliari, scolastiche e sociali normalmente terrificanti che bloccano l’espressione delle loro potenzialità. Giorno dopo giorno i bambini e le bambine rinunciano a qualche aspetto della loro spontaneità, della loro curiosità, della loro libertà, fino a diventare abbastanza insensibili da risultare “accettabili”.

In un secolo gli psicoterapeuti non sono approdati ad alcuna teoria tanto ragionevole da risultare condivisa. Non lo affermo io, perché lo affermano loro stessi con le loro divisioni in Scuole. Questo però non è il vero problema, perché le questioni difficili richiedono tempo per essere chiarite e nel frattempo tutte le ipotesi meritano rispetto. Il problema è un altro: se le motivazioni di fondo degli psicoterapeuti fossero state conoscitive, tali studiosi avrebbero continuato a cercare e a confrontarsi. Hanno invece organizzato sul piano politico un riconoscimento pubblico (ministeriale, statale, burocratico) di tutte le Scuole più “affermate” e sono rimasti, quindi, con tutte le loro incertezze, ma con la certezza di far parte di una “categoria professionale riconosciuta”.
La cosa è inquietante, come lo è la fame di successo degli attori che girano anche film scadenti pur di “restare nel giro” o dei politici che “aggiustano” le loro convinzioni pur di restare al governo. La cosa non va condannata, ma spiegata: gli psicoterapeuti combattono, come gli “imprenditori” o i “politici” o “gli stilisti” per il loro “successo”. Ma non trovano mai pace. Non cercano la bellezza accettando il dolore, ma cercano (ed hanno ottenuto) la loro “affermazione”. Per questo non possono aiutare le persone a rinunciare alle loro illusioni. A volte  "sconfiggono" un sintomo, ma non le illusioni che lo hanno generato.

Fortunatamente la bellezza non scompare mai. All’interno della tradizione della psicoterapia, singoli autori ci hanno lasciato spunti di riflessione significativi e hanno concepito degli interventi che possono facilitare dei cambiamenti. Penso che sia importante, quindi, raccogliere quegli aspetti marginali della psicoterapia che, associati ad alcuni contributi della filosofia e delle scienze sociali, possono aiutare le persone a chiarire il loro modo di vivere e il loro progetto di vita. Tutto ciò che indebolisce le illusioni accresce la consapevolezza del dolore. Nella mia vita e anche nelle sedute cerco sempre il dolore, perché esso va eliminato quando è eliminabile, ma va accettato quando è ineliminabile.
Il nostro cambiamento consiste nel rinunciare alle difese psicologiche e nel notare che ci sentiamo arricchiti dalla compassione per noi stessi, dalla compagnia di noi stessi, dall’esperienza di piangere, asciugarci le lacrime, rinunciare alle paure irrazionali, sorridere, cercare gli altri e sentire che siamo ancora in gioco. Il gioco della vita … fino alla morte. Noi non possiamo sottrarci al dolore inevitabile e alla morte, ma possiamo riuscire a morire sapendo di aver vissuto una vita realmente nostra.


4. Ottimismo e distacco

Di fronte al dolore, i bambini lasciati soli devono "arrangiarsi" e riescono solo a dissociarsi dal dolore. In pratica i bambini riducono il contatto con la realtà. Ciò ha ovviamente degli svantaggi: l’incubo non risolto permane (al di sotto del livello della consapevolezza) anche negli anni della maturità. La società in cui viviamo è tanto irrazionale perché è organizzata da “adulti-bambini” spaventati che, senza rendersene conto, continuano a dissociarsi dal dolore come nell'infanzia.

Vediamo ora quali sono le due principali strategie difensive attraverso le quali i bambini riescono a non sentire il dolore. Come per togliere corrente ad una lampadina è sufficiente recidere uno solo dei due fili, per eliminare o ridimensionare la percezione del dolore basta recidere una delle sue due sorgenti: la consapevolezza della realtà frustrante oppure la consapevolezza del proprio bisogno o desiderio. Si prova dolore solo se si è "in contatto” sia con un bisogno o un desiderio, sia con una realtà che nega l'appagamento. Quindi, i bambini hanno due modi per dissociarsi dal dolore: interrompere il contatto con l’impossibilità di un appagamento o con il bisogno. In pratica, per difendersi i bambini diventano irrazionalmente "ottimisti" oppure irrazionalmente “distaccati”.

Un bambino, per difendersi in chiave “ottimistica” può inventarsi di essere respinto da un genitore per una propria colpa. Salva la consapevolezza del bisogno, ma nega il rifiuto considerandolo “ottimisticamente” un fatto transitorio e superabile. Si inventa quindi di avere il potere di modificare il rifiuto diventando “migliore” e inizia a tormentarsi nella speranza di risultare “meritevole” di amore. Il bambino preferisce confondere l’amore (che è “dato” o è semplicemente assente) con la stima (che invece si merita). Con questa falsificazione della realtà può pensare che quando sarà “migliore” sarà anche amato. Il bambino è quindi solo perché sperimenta un tipo di rapporto che non è sicuro. Egli “si tira su” da questa situazione dolorosa illudendosi di aver guastato un'armonia e di avere il potere di ristabilirla. Il fatto che i sensi di colpa siano diffusi (cioè “normali”) non significa che siano razionali, perché sono e restano irrazionali anche se i moralisti e gli psicoterapeuti non lo ammettono. La realtà resta quella che è anche se disconosciuta: se i genitori accettano solo i “figli buoni” non accettano i figli reali che non sono  né buoni, né cattivi, ma meravigliosi e bisognosi.

Il senso di colpa è uno dei tanti modi “ottimistici” di interrompere il contatto con una situazione dolorosa. Le persone "ambiziose" non temono di essere "colpevoli", ma di essere "delle nullità" e le persone "seduttive" non temono di essere colpevoli ma di essere "trasparenti"- Le persone conformiste non temono di essere colpevoli ma di essere "inadeguate". Le persone "schive" non temono di essere colpevoli ma temono di essere "disturbanti". L'illusione di potere accomuna comportamenti irrazionali molto diversi in cui è avvertito un senso di bisogno (di accettazione) ma è negato il rifiuto con l’idea ottimistica di un possibile “riscatto”. Milioni di persone sprecano la loro vita sforzandosi di "realizzarsi" o di "adeguarsi" o di "dimostrare" di essere ciò che non sono. L'ansia irrazionale e la rabbia irrazionale caratterizzano sempre le difese psicologiche "ottimistiche" centrate su illusioni di potere.

Passiamo ora all’altro gruppo di difese: quelle classificabili come “distacco”. Nel distacco emotivo i bambini non negano che la realtà (costituita fondamentalmente dai genitori) sia rifiutante, ma negano di desiderare davvero qualcosa e quindi negano di essere “toccati” dai rifiuti. Negando la loro dipendenza affettiva manifestano un atteggiamento definito "contro-dipendenza". I bambini che non cercano contatto, carezze e dolcezza non soffrono per i loro bisogni non soddisfatti perché hanno imparato a sentirsi poco bisognosi. I bambini che non chiedono mai un abbraccio e che chiedono solo di poter giocare in cortile con gli amichetti si sono già dissociati: credono davvero di voler giocare in santa pace senza avere i genitori "troppo addosso". Ciò vale anche per i bambini capricciosi: non a caso tali bambini fanno capricci solo per dolci o giocattoli che possono prima o poi ottenere (e che immancabilmente ottengono). Pretendono cose (inutili e ottenibili) per aver la sensazione di ricevere qualcosa, ma hanno già rinunciato e mettere in gioco i desideri di intimità. I bambini "distaccati" diventano adulti ossessionati dal "bisogno" di sentirsi "indipendenti", dalla paura di chiedere aiuto e a volte dal bisogno di aiutare "gli altri" (sui quali proiettano i propri bisogni negati).

Ovviamente sono tante le difese “ottimistiche” e sono tante le difese riconducibili al “distacco”. Sono presenti a volte anche difese di altro genere. Ad esempio, se una persona si ritira dalla realtà e si sente “confusa” non ha più nemmeno bisogno di negare desideri o di negare frustrazioni: è “poco presente”. Di fatto, però, le modalità ottimistiche e quelle distaccate sono le più diffuse e si presentano in modi discreti o molto ingombranti. Funzionano, nel senso che non fanno sentire il dolore. Si dirà: “ma se una persona è tormentata dai sensi di colpa soffre!”. Ciò è inesatto, perché con le difese psicologiche e con i sintomi le persone “stanno male”, ma non provano dolore: non accettano una perdita dolorosa o un’impossibilità dolorosa proprio perché “stanno male”. Lo “star male” irrazionale non include il dolore, ma vari miscugli di rabbia irrazionale e di ansia irrazionale. Tali emozioni “fasulle” disturbano, ma proteggono dalla consapevolezza di una mancanza. Impediscono il contatto. Infatti, se vi trovate con una persona addolorata soffrite “con lei” e comunque vi sentite “in contatto” con lei. Se state con una persona che si colpevolizza, che si sente depressa, che “ha l’angoscia”, che si tormenta, vi sentite soli.

Nella psicoterapia le riflessioni sul dolore e sulla morte sono in genere poco approfondite, proprio perché la psicoterapia favorisce un'accettazione “distaccata” del dolore (secondo il “principio di realtà” di matrice freudiana) oppure propone modelli rassicuranti e consolatori della vita che, in fondo, costituiscono una versione "moderna" delle religioni. Pochi psicoterapeuti hanno quella lucida sensibilità che consente di porre il dolore e la morte al centro del lavoro svolto nelle sedute. Ciò che rende davvero la vita vivibile non è né l’ottimismo del potere (quello di “conquistare” una felicità impossibile), né il distacco.

Di fatto il dolore caratterizza la condizione umana. L’unico strumento di cui disponiamo per affrontarlo è costituito da una dignitosa resa.  Il lavoro del lutto non è solo un impegno "mentale", ma si manifesta nel pianto. Attraversiamo compiutamente un periodo di lutto se evitiamo sia di “restare asciutti”, sia di “frignare”. Nel pianto (quello vero, caldo, morbido) accogliamo il nostro bisogno di “scioglierci nella disperazione” a livello psicologico e fisico. Il lutto è ascolto di se stessi ed è accoglienza di se stessi. E’ un lasciar andare, con le lacrime, le speranze che non sono più “nostre”. Il lutto è pietà per noi stessi. Solo se rinunciamo ad abbracciare idee rassicuranti o a restare distaccati possiamo abbracciarci e, proprio partendo da questa esperienza, possiamo abbracciare gli altri.


5. Il dovere di essere qualcun altro

I comportamenti irrazionali e distruttivi sono comprensibili come difese psicologiche. Una difesa psicologica, nell’accezione del termine che utilizzo, non protegge realmente da nulla, ma blocca il contatto emotivo con una situazione dolorosa. Le persone fanno cose bellissime di cui si capiscono facilmente le ragioni ed anche cose assurde oppure orribili che vengono svalutate ma non capite.

Nella dimensione pubblica ogni gruppo pensa che gli esponenti del gruppo avverso avrebbero dovuto fare di meglio, e nella dimensione privata ogni persona pensa che altre persone avrebbero dovuto fare di meglio: i figli avrebbero dovuto impegnarsi di più, i genitori avrebbero dovuto amare di più i figli, i criminali non avrebbero dovuto commettere crimini, i pubblicitari non avrebbero dovuto lanciare messaggi manipolativi, le persone avrebbero dovuto fare più attenzione alle manipolazioni, e così via. E’ sorprendente il fatto che gli esseri umani riescano a creare e a tramandare teorie scientifiche sofisticate mentre continuano a ragionare in modi terribilmente superficiali sulle ragioni dei loro comportamenti.

Il concetto di  "malvagità" ha tappato (apparentemente) il buco costituito dalla difficoltà di capire le azioni distruttive e il concetto  "patologia psichica" ha tappato (apparentemente) il buco costituito dalla difficoltà di capire le azioni "strane". Poiché solo in rari casi i difetti di funzionamento del cervello causano vere patologie (di cui si occupano i medici e non gli psicoterapeuti),  l'etica  (da sempre) e la psicoterapia (da un secolo) inventano colpe e patologie psichiche per non spiegare perché le persone fanno ciò che fanno.

Quando si fa un uso ragionevole del verbo “dovere” ci si riferisce esplicitamente o implicitamente alle conseguenze di un’azione: l'espressione “devi pagare le tasse” può riferirsi a possibili conseguenza per la persona (devi pagare le tasse se non vuoi rischiare gravi sanzioni) o a possibili conseguenze per altri (devi pagare le tasse se non vuoi far mancare alla collettività le risorse necessarie). Tale uso ragionevole del verbo consiste in una pressione per favorire una certa linea di condotta e la pressione consiste nel far notare le conseguenze oggettive di un comportamentoPiù la pressione è forte, più slitta dal piano del suggerimento al piano del ricatto. Le leggi, in ultima analisi sono ricatti, ma almeno sono ricatti “onesti”, nel senso che si limitano ad esplicitare le conseguenze oggettive di particolari comportamenti. Esse possono essere più o meno legittime (perché possono essere imposte in una democrazia o in una dittatura) e possono essere più o meno valide (per il loro specifico contenuto), ma costituiscono un “ricatto onesto” perché non aggiungono nulla di ambiguo alla realtà pratica che definiscono. Finché utilizziamo il verbo “dovere” nel continuum pratico che va dal suggerimento al ricatto siamo nell’ambito della ragionevolezza. Purtroppo, però, il verbo in questione spesso viene utilizzato in modi poco “onesti” (etici) che si riducono a tentativi di manipolazione psicologica. Si realizza una manipolazione quando l’agente della manipolazione cerca di indurre l'interlocutore a fare qualcosa che non vorrebbe fare senza esplicitare "onestamente" un ricatto. Nella manipolazione l’agente può anche non essere consapevole di ciò che fa, ma ha comunque in mente di indurre qualcuno a fare qualcosa che non farebbe ed ha in mente di raggiungere un proprio obiettivo senza curarsi della sofferenza che genera nella persona manipolata. Nella manipolazione (riuscita o solo tentata), l'altra persona è trattata come un oggetto (da sfruttare) e non come un soggetto (capace di sentire e anche di soffrire).

Dire “sei cattivo” ad un bambino (in tutte le sue varianti possibili) costituisce una svalutazione personale molto frequente di cui in genere si sottovalutano gli effetti. Tale affermazione implica l’idea che nel bambino ci sia “qualcosa di sbagliato”, di cui egli è però responsabile e per cui può essere rifiutato. Appena un bambino accetta la svalutazione e si considera “cattivo”, si trova in una situazione terribile: non può fare niente (perché “è" un bambino cattivo), ma dovrebbe fare qualcosa per non sentirsi “colpevole”. Il bambino svalutato, essendo troppo piccolo per rifiutare la relazione con la figura di accudimento, accetta l'idea di “avere in sé un mostro”. Non avendo ancora una propria autonomia psicologica, non può tollerare la solitudine costituita dal fatto che il genitore non sta realmente interagendo con lui, ma sta dicendo cose assurde per conto proprio e non gli sta dando amore e sicurezza.

Se diciamo ad un bambino “devi fare così se non vuoi essere cattivo” stiamo ingannando il bambino. Lasciamo intendere che egli verrà rifiutato e non amato se agirà in un certo modo e quindi affermiamo implicitamente che lo amiamo, ma potremmo non amarlo più in conseguenza di una sua azione e questa è una menzogna. La menzogna sta nel fatto che implichiamo la possibilità di un amore condizionale. L’idea di un amore che cessa appena una persona commette un errore è una assurdità perché proprio nel momento della manipolazione l’amore è assente. La menzogna sta anche nel fatto che implichiamo un possibile annullamento del valore personale del bambino: se egli sbaglia non solo perderà l’amore del genitore, ma perderà il proprio "valore", dimostrandosi un bambino non amabile. Nella manipolazione in questione si vuole quindi indurre il bambino ad agire in qualche modo e si mente sia affermando che in seguito potrebbe non essere più amato (mentre già ora non è amato), sia affermando che potrebbe diventare non amabile
Non occorrono riflessioni particolarmente profonde per capire che queste frasi fanno male più di una frustata: i bambini, si lacerano interiormente per non perdere la certezza di poter contare su un rapporto sicuro (che invece è già labile o inesistente). Per non sentirsi soli accettano il dovere di "essere qualcun altro".

Le manipolazioni funzionano fra bambini e figure d’accudimento. Quelle degli estranei non toccano in alcun modo i bambini, dato che i bambini non hanno bisogno di essere amati da chiunque. Le manipolazioni favoriscono la costruzione di difese psicologiche di cui i bambini non hanno coscienza e che quindi permangono anche nell'età adulta. Per questo motivo le manipolazioni e le colpevolizzanti hanno spesso effetti profondi anche in seguito: nei rapporti di coppia e anche nei rapporti sociali in cui le persone tentano di soddisfare un “bisogno di appartenenza”. Spesso i ragazzi agiscono in modi sanciti dal loro “gruppo” per non sentirsi esclusi: non si comportano razionalmente quando sentono la necessità di vestirsi in un certo modo o addirittura si vergognano se non lo fanno. Addirittura tanti giovani si sono arruolati per andare a combattere guerre che nemmeno capivano pur di non sembrare dei vigliacchi. Da sempre uomini o donne si sposano per non sembrare persone “poco serie” e non certo per convinzioni profonde relative all'istituzione del matrimonio. Da sempre moltissime persone adulte manifestano un attaccamento a convinzioni religiose sulle quali in realtà non hanno fatto alcuna riflessione: non sarà un caso che in alcuni paesi quasi tutti siano “convinti cattolici” ed in altri quasi tutti siano “convinti islamici”. Anche i messaggi della pubblicità e della propaganda politica fanno leva più sui confusi bisogni infantili di sicurezza, appartenenza e accettazione che sulle capacità razionali delle persone. Le manipolazioni, quindi, hanno effetto sui bambini e poi anche sugli adulti che mantengono modalità difensive costruite nell’infanzia e che quindi sentono bisogni "antichi" che contraddicono i loro veri bisogni.

I due livelli della manipolazione legata all’idea di “dovere” sono quindi il ricatto affettivo (“devi agire così se non vuoi perdere il mio amore”) e la svalutazione (“devi far così, se non vuoi risultare non amabile"). In realtà i due livelli si intrecciano. Infatti, genitori implicano che, se “cessano di amare” i figli, non lo fanno per un capriccio, ma perché i figli sono diventati “non amabili”. Alla base di questa comunicazione assurda sta il fatto che i genitori non hanno un reale contatto emotivo con i figli e con la sofferenza che creano nei figli, ma sentono l’esigenza di plasmarli e di piegarli. La frase “devi fare così se vuoi raggiungere quel risultato” è un aiuto, mentre la frase “devi far così se non vuoi essere disprezzabile (o ridicolo)” spinge un bambino ad una dissociazione interna, ad un conflitto interno e ad un’azione risultante dall’odio per sé. Se i bambini non dipendessero totalmente sul piano affettivo dai genitori, farebbero ciò che si sentono di fare ed elaborerebbero il dolore di non ricevere amore. In tal caso, però sarebbero già persone adulte.

Nella manipolazione colpevolizzante manca l’interesse per “l’altro”. In genere manca anche la consapevolezza di tale disinteresse. Tanti genitori o “amanti” o “amici” giurerebbero che colpevolizzano “per amore”, ma ciò non cambia la realtà: o le persone sono interessate al mondo personale dell'interlocutore o sono solo interessate a farlo agire in un certo modo. Infatti, se il nostro interlocutore ci sta a cuore siamo convinti che la sua vita sia preziosa, che agisca per degli scopi e che possa anche cambiare linea di condotta, ma solo se ne è convinto.

Quando le persone sono consapevoli di voler sfruttare o danneggiare gli altri non sono mai consapevoli dei veri motivi per cui fanno ciò che fanno, dato che agendo in modi distruttivi non migliorano nemmeno la loro vita. Le “vere ragioni” non sono né le giustificazioni inventate a posteriori né le "tendenze" elencate dai moralisti (egoismo, avidità, sete di potere, ecc.), né i "complessi" inventati dagli psicoterapeuti. I “veri scopi” perseguiti senza consapevolezza sono disconosciuti dalle persone perché rinviano a vicende dolorose mai accettate nell'infanzia. In questa chiave di lettura, le persone che fanno cose apparentemente incomprensibili possono essere capite non in relazione alla loro "natura" o al loro passato, ma in relazione agli obiettivi difensivi che si sono dati nel loro passato e che mantengono (inconsciamente) nel presente. Oggi agiscono perché hanno degli obiettivi attuali, ma alcuni di questi permangono fin dalla preistoria della loro esistenza. Questa idea toglie legittimità sia a qualsiasi giustificazione delle azioni distruttive, sia a qualsiasi svalutazione delle persone distruttive.

Capire perché le persone fanno ciò che fanno permette di trattare le persone come persone, cioè come esseri che hanno degli scopi e che hanno degli scopi perché hanno una storia ed una particolare comprensione (realistica o difensiva) della loro storia. Tale comprensione porta ad accettare che ogni persona è “qualcuno” e non “qualcosa”. Chiunque oggi può rimpiangere di non essersi trasferito negli anni della sua giovinezza in un altro continente o di non aver fatto certi studi, o di non aver corteggiato una certa persona. Tuttavia, in questi casi un sincero rimpianto non ha nulla a che fare con il senso di colpa. Se la persona in questione tornasse indietro nel tempo con la consapevolezza di oggi farebbe sicuramente scelte diverse, ma se tornasse ai momenti cruciali delle decisioni prese in passato avendo a disposizione gli elementi che aveva allora, farebbe le stesse scelte. Quindi, chi dice ad una persona  che “avrebbe dovuto" agire diversamente da come ha agito dimostra di non voler capire quella persona. Dimostra di svalutare la sua intera storia personale. Dimostra di non rispettare quella persona. In pratica afferma che la persona a cui sta parlando dovrebbe essere un’altra persona, con un’altra storia personale.


6. Un esempio

Voglio riportare alcune sedute di un cliente, che chiamerò Marco, nelle quali è stato svolto un lavoro che ha ristabilito un dialogo interno razionale e compassionevole e ha dissolto un grave senso di colpa. I sensi di colpa non hanno nulla a che fare con il dispiacere che si prova quando si commette un errore che danneggia altre persone. Qualsiasi dispiacere di questo tipo implica compassione e rispetto per sé e per gli altri, mentre i sensi di colpa (come ogni tipo di svalutazione) sono irrazionali, “spietati”, inutili e dannosi. Vengono costruiti perché intossicano di rabbia e paura, ma distraggono dal vissuto doloroso di non aver ricevuto amore.

Marco era uno studente lavoratore di 29 anni occupato come capo-magazziniere in una grande ditta e aveva riscontrato alcune irregolarità da parte di un suo sottoposto (Giuseppe), con il quale aveva un rapporto amichevole, non profondo, ma basato sulla reciproca simpatia. Parlò del problema con franchezza anche perché, se l’irregolarità fosse stata accertata, egli  si sarebbe trovato nella situazione incresciosa di doversi scagionare documentando la responsabilità di Giuseppe. Questi reagì in modo strano: fu evasivo, minimizzò e poi si impuntò sul fatto che Marco non doveva essere così pignolo. Marco sentì molta irritazione e reagì contestando il modo “da stronzo” con cui Giuseppe aveva risposto alle sue osservazioni. A quel punto Giuseppe reagì infuriandosi e Marco capì che Giuseppe si trovava in una difficoltà psicologica che non gestiva in modo razionale. Solo per questo cercò di smorzare i toni e invitò Giuseppe a ragionare, ma questi affermò con disprezzo che Marco tradiva gli amici e che per questo non valeva niente e non era nessuno. Consapevole del muro difensivo che Giuseppe aveva costruito, ma anche consapevole di essere deluso e stanco, Marco sentì che non voleva più essere comprensivo con chi per problemi suoi non era in grado di trattarlo da persona. Andò quindi in direzione per accettare il trasferimento ad un altro reparto che gli era stato proposto di recente. Pur essendo riuscito a liberarsi della presenza ormai sgradevole di Giuseppe, cominciò a sentirsi spesso disturbato dall’accusa di aver tradito un’amicizia. Si trovò lacerato interiormente pur rendendosi conto che proprio Giuseppe aveva tradito tale amicizia.

Marco, in analisi da tre anni, aveva fatto dei cambiamenti significativi, ma tale episodio ci portò ad approfondire un vissuto e un’antica convinzione autosvalutativa che avevamo già preso in considerazione. Dopo alcuni mesi concludemmo il lavoro analitico, che era stato abbastanza  lineare, poiché il cliente in questione pur avendo manifestato disturbi di un certo rilievo, aveva sperimentato nei primi due anni di vita quella che Bowlby chiama “una base sicura”. Il lavoro su tale “ricaduta” che qui voglio descrivere, si è sviluppato in tempi brevi proprio perché l'analisi aveva già dato dei buoni frutti. Soprattutto una cosa ha aiutato Marco a svolgere un lavoro davvero prezioso in poche settimane: la convinzione acquisita nei tre anni d’analisi che ogni stato d’animo irrazionale non va considerato come qualcosa da eliminare allo scopo di sentirsi “bene”, ma è una difesa da qualche vissuto che, per quanto doloroso, merita di essere recuperato ed elaborato.

Si presentò alla seduta di cui ora riporterò alcuni passaggi comunicandomi di aver già capito che con l’autosvalutazione stava probabilmente cercando di non sentire la sua solitudine rispetto a Giuseppe ed anche rispetto a sua madre, che lo aveva appunto spesso squalificato quando deludeva le sue aspettative. Mi disse però che, pur cercando di scovare i suoi sentimenti profondi presumibilmente coperti da quello stato d’animo irrazionale, non era riuscito a ritrovare la propria serenità e spesso rimuginava sull'opportunità di riparlare con Giuseppe pur pensando che tale fatica sarebbe stata inutile, perché sarebbe stata recepita solo come una “debolezza”.

M. Credo che Giuseppe si sia sentito un bambino svalutato (“cattivo”) e che abbia cercato di passare a me la patata bollente costituita dal suo brutto vissuto. L’assurdità della sua risposta avrebbe dovuto farmi provare pena per lui. Però “ci sono cascato”: gli ho sbattuto in faccia il fatto che parlava “da stronzo” e così ho solo peggiorato la situazione. Mi sono voluto illudere di poter parlare, anche arrabbiandomi, con un adulto anziché con un bambino spaventato e gli ho lasciato solo la possibilità di diventare più violento.

GF. Condivido l’idea che arrabbiandoti tu abbia agito difensivamente e, in fondo, distruttivamente. Questo però non ti rende un mostro. Sei la persona di sempre con un’esperienza in più riguardante i tuoi limiti.

M. Lo so bene. Infatti, non mi interessa trovar pace “giustificandomi”: so che avrei potuto fare a meno di arrabbiarmi, ma so anche che ciò non mi rende una persona “sbagliata”. Sono tranquillo sul piano delle mie convinzioni. Il problema è un altro: pur rispettando le mie ragioni ed anche il mio errore e pur sapendo bene che ero e resto una bella persona, sento anche di essere una specie di mostro, un essere che è “cattivo dentro”. Come se il mio amore (per me, per la vita ed anche per Giuseppe che, poveraccio, se non va fuori di testa, è davvero una cara persona) fosse inquinato da qualcosa dentro di me che mi rende “maledetto”. Mi sento “da qualche parte” un lebbroso che può contagiare chi tocca e non riesco a mettermi in pace con me. Non sono depresso: faccio le mie solite cose, anche con passione. Questo stato d’animo non rovina la mia vita, però mi ha tolto quella serenità di fondo che avevo e a volte mi toglie anche il piacere di stare con me.

Ero un po’ in difficoltà a lavorare con Marco perché egli aveva una comprensione lucida e sentita della sua vecchia tendenza a colpevolizzarsi e svalutarsi ed aveva anche fatto delle esperienze emotive significative che lo avevano portato ad accettarsi per quello che era. Lavorando su questo problema avevo la sensazione di fare un ripasso più che un lavoro, ma un ripasso che non scalfiva il rifiuto di sé che Marco in qualche misura attivava ancora.
In alcune sedute esplorammo la sua rabbia verso Giuseppe (e verso sua madre) raggiungendo anche momenti di dolore intenso, liberamente espresso nel pianto, ma il lavoro era troppo “semplice” e poco incisivo. In un’altra seduta Marco si calò nei panni di Giuseppe e della madre, sentendo la loro rabbia ed anche il loro dolore. Cercammo anche di vedere se il problema con Giuseppe rinviava più ad un conflitto con il padre che ad un conflitto con la madre. Qualcosa trovammo anche in questa direzione, ma senza sbloccare il “disco rotto” che appesantiva il suo cuore. Mi chiesi anche se ci fosse qualcosa di confuso nel rapporto di Marco con me che rendeva superficiale la collaborazione, ma in realtà dovetti riconoscere che consideravo realmente autentica la nostra collaborazione. Esclusi pure che questa “ricaduta” potesse essere un tipico falso problema “inventato” per paura di concludere le sedute. Mi chiesi quindi se, anziché chiarire una situazione già chiara o esplorare emozioni già esplorate, avrei potuto aiutare Marco favorendo l'approfondimento del suo dialogo interno.

GF. Quando rimugini sull’opportunità di un chiarimento con Giuseppe cerchi forse un perdono che da solo non riesci a darti perché ti senti come un bambino.

M. Sì. Qualcosa del genere. Forse dovrei “recuperare” qualche vecchia storia personale, poiché con Giuseppe, in fondo, non è accaduto niente di realmente grave. Lui ha fatto degli errori e io ho fatto solo l’errore di offenderlo perché mi aveva davvero scocciato. Però il problema non sta in questo errore, ma nella sua rabbia gelida, di fronte alla quale mi sento come se fossi “un bambino sbagliato”.

GF. Se ti senti troppo piccolo per opporti alla svalutazione di tua madre, ti serve una madre davvero buona e molto forte che ti permetta di mettere in discussione dentro di te quella svalutazione. Oggi hai già una madre interiore con capacità  più che sufficienti, ma non senti di averla. Puoi provare ad immaginarla e, per cominciare, puoi immaginarla come una presenza esterna a te. Magari così scoprirai che sei tu a darle vita.

M. Mi piace l’idea, ma non so come metterla in pratica

GF. Oggi non abbiamo più tempo, ma puoi fare questo lavoro a casa, in un momento in cui non ti senti bene e in cui hai anche un po’ di tempo libero. Immagina di essere l’Angelo custode di Marco, magari un “Angelo di seconda classe” come quello del film di Frank Capra che ami tanto [1946, La vita è meravigliosa]. Scrivi una lettera a Marco per aiutarlo a trovare la pace che vuoi che trovi.

M. Va bene, lo farò.

Marco si presentò alla seduta successiva visibilmente soddisfatto e mi disse subito che sentiva di aver cominciato a riprendersi la sua vita. Non aveva fatto alcuna “scoperta” particolare, ma con l’espediente della lettera era riuscito a “toccarsi il cuore” in profondità. Mi lesse la lettera sottolineando anche i punti in cui aveva pianto. Riporto il testo originale che Marco mi ha in quell’occasione lasciato come “regalo” e che in seguito mi ha autorizzato a pubblicare e a cui ho apportato solo qualche piccola correzione adatta a rendere il testo più scorrevole.

“Caro Marco,
in questi giorni sei stato male in un modo che però non ti arricchisce come quando sei triste. In passato hai conservato il rispetto di te stesso anche facendo errori più gravi e quindi non puoi trovar pace dimostrando che sei "scusabile", ma tenendo presente che sei amabile anche quando sbagli.
Sembra che questa verità non trovi posto nel tuo cuore, forse perché il tuo cuore è in allarme e teme di spezzarsi. L’idea di riparlare con Giuseppe in modo da ricordargli che gli sei amico e che è stato lui a volere uno scontro che non ti interessava è buona, in linea di principio, ma di fatto Giuseppe non ha mosso un dito per farti pensare che questa tua fatica darebbe dei frutti.
Il punto è un altro: Giuseppe ha dei problemi e per questo sa diventare sgradevole. Togliti dal groppone il suo disprezzo: smetti di sentirti un mostro pur di sentirti d’accordo con lui almeno in questo. Tu sei una buona persona e ciononostante puoi essere odiato da gente fatta in quel modo. [Qui mi sale la commozione]
E’ compito di Giuseppe trovare pace, trovare la sua pace, con i suoi tempi. Tu pensa a trovare la tua, subito. Non condannarti come facevi da bambino. Già allora ti sentivi cattivo, con delle cose brutte dentro, mentre eri solo un bambino, una piccola persona che stava facendo del suo meglio. Concediti la benevolenza che nel corso dell’analisi hai scoperto di poterti dare da solo, anche se non lo hai imparato dai tuoi genitori e dai professori o dai preti.
Quel dialogo con te stesso ti ha reso lievi e sopportabili anche i momenti brutti che hai attraversato negli ultimi anni. [Qui scoppio in lacrime e mi sciolgo in un pianto davvero liberatorio]
Finalmente stai piangendo per te e con te. Da un po’ di tempo ci provi, ma stenti a farlo fino in fondo perché resti inchiodato all’idea di rimettere a posto le cose. La svalutazione di Giuseppe ti ha catapultato in un’epoca in cui eri incapace di star solo e sentivi il bisogno di condividere ciò che pensavano i tuoi genitori. L’amore che si riceve è un dono. Non va pagato con l’autosvalutazione. Ringrazia chi ti ama e rinuncia all’amore di chi non riesce a vederti. Hai già percorso questa strada e ti ha fatto bene; riprendi il cammino e concediti il tuo amore anche quando gli altri non ti capiscono.
Accontentati della compagnia di chi ti vuole davvero bene, di chi sa volerti bene. Accetta la solitudine, quando è insuperabile, piangi per l’incomprensione, ma non venire a patti con nessuno per ottenere un’amicizia fasulla.
Salvati, ragazzo mio, salvati la pelle. Non perdere la tua pace per persone che non sanno essere felici. Augura a loro di riuscire a vivere meglio, ma accetta che è compito loro fare il loro percorso interiore. Vivi con il tuo amore e con il mio”.

M. Poi ho pianto ancora. Parole come “salvati, ragazzo mio!” erano quelle di un padre, di una madre, di un Angelo Custode, ma venivano da me. Dopo quel pianto mi sono sentito più leggero, come se la mia anima fosse uscita immacolata dalla lavatrice. Non sono tornato davvero sereno come in passato, ma ho l’impressione di essere sulla strada giusta. Forse ci vorrà del tempo per consolidare questa consapevolezza.  Perché ho pianto tanto proprio mentre mi sentivo in grado di proteggermi?

GF. Se eserciti la tua capacità genitoriale verso te stesso, puoi sicuramente consolare te bambino, ma così rinunci ad ogni speranza di poterti “riabilitare” come bambino. Tu eri in ansia e nell’ansia c’è sempre anche speranza. Ora sei libero di non essere più accondiscendente e di non sentirti più colpevole, ma quando ti (ri)senti bambino, devi accettare di (ri)sentirti irrimediabilmente solo. Il bambino (rifiutato) che sei stato resterà immutato, nei tuoi ricordi, per sempre. Per la vecchia esperienza di non accettazione stai facendo un lutto. Anzi, stai completando il lutto che avevi già avviato un anno fa.


Nella seduta successiva, Marco è un po’ preoccupato per come vanno le cose.

M. La lettera dell’Angelo Custode e la seduta scorsa mi hanno dato risultati che sono rimasti stabili. Ti dissi però che non ero davvero in pace con me come prima. Questa settimana speravo di sentirmi meglio, ma mi sono affiorati altri timori che considero poco razionali e che mi disturbano. Anzi, mi è venuto in mente di aver passato un periodo della mia infanzia con queste paure (alle elementari). Poi erano scomparse e non te ne avevo mai parlato perché me ne ero dimenticato.

GF. Di cosa si tratta?

M. La paura delle maledizioni. Da quando penso con la mia testa non sono mai stato superstizioso. Da bambino per un certo periodo ho avuto paura di essere maledetto e a volte temevo che se qualcosa andava male ciò fosse una prova del fatto che una maledizione pesava sulla mia testa. Allora chiedevo rassicurazioni a mia madre o pregavo. Così smettevo di pensarci, ma la paura tornava. Anche la paura di portare sfortuna agli altri e di essere colpevole se succedeva qualcosa ad un amico con cui stavo giocando.

GF. Dove avevi sentito parlare di queste stupidaggini?

M. Le sentivo da mio padre. La sua rabbia. Quando si arrabbiava per qualcosa era come un fiume in piena, incontrollabile: si poteva solo attendere che si scaricasse. Io non sopportavo la sua rabbia che montava e si traduceva in lamenti vittimistici ad alta voce e proteste per essere sicuramente maledetto; soprattutto sentivo di non poter fare nulla. Ogni tanto mio padre si infuriava così per delle piccole difficoltà. Io pensavo fossero sciocchezze perché a me sembravano tali e perché vedevo che mia madre affrontava le stesse difficoltà senza fare quelle sceneggiate. Altre volte, quando si indignava per cose che riteneva ingiuste, lui stesso scagliava le sue maledizioni (sempre da vittima) verso chi agiva in modi per lui intollerabili (certi criminali di cui si sentiva parlare o certi truffatori). Diceva cose del tipo: “Per me quei soldi rubati gli andranno di traverso e li spenderà in medicine” oppure “Se c’è giustizia dovrà patire per quel che ha fatto”. Parlava con una collera chiassosa e cieca.  Mi faceva paura quando era così arrabbiato, anche se non si arrabbiava mai così con me. Magari si mostrava seccato, ma non mi urlava contro, non mi picchiava, non mi lanciava maledizioni. Si sentiva maledetto per qualche torto che aveva subito, ma non per quel che avevo fatto io. Eppure quella rabbia mi spaventava. Mi faceva anche arrabbiare, ma non potevo dirgli “Basta con le cazzate, è ora di pranzo!”.

Dopo aver approfondito la descrizione dei fatti che ricordava, l’ora stava per finire e consigliai a Marco di scriversi un’altra lettera (come Angelo Custode o semplicemente come Marco-di-oggi) per darsi pace quando si sentiva un bambino piccolo fra le onde delle maledizioni cosmiche. Nella seduta successiva mi portò questa lettera, e mi disse che il “compito a casa” aveva prodotto un cambiamento sensibile: nel corso della settimana: i pensieri e i timori irrazionali relativi alle maledizioni erano gradualmente scomparsi. Ecco la lettera:

“Caro Marco,
stai recuperando tutti i tuoi vecchi incubi e li stai sentendo come se fossi ancora un bambino. Vediamo di tirar fuori qualcosa di buono da questo brutto periodo. Tuo padre a volte si arrabbiava con te, ma senza picchiarti e senza maledirti. Però tu lo vedevi in guerra con il mondo e lo vedevi mentre si descriveva come vittima di influenze malevole e distruttive; lo vedevi mentre lanciava le sue maledizioni verso i malvagi. Il male viaggiava come una freccia capace di colpire senza pietà. Tu avevi paura che il male potesse colpire anche te, dato che poteva colpire chiunque. Il fatto di essere sempre stato “risparmiato” ti lasciava in ansia, perché se una cosa poteva accadere agli altri, poteva accadere anche a te. Da qui i tuoi sforzi di non fare arrabbiare tuo padre.
Cercavi di uscire dall’angoscia con le rassicurazioni di tua madre (che però, anche se non era tipo da maledizioni, era abituata a "rifiutare i cattivi”). Oggi puoi fare di meglio: puoi accettare che hai avuto una sfortuna, non una maledizione e devi tenertela, liberandoti dalla paura. Parlo della sfortuna della rabbia, dell’insoddisfazione e del malumore di tuo padre: non ti sentivi libero di appoggiarti a lui per sentirti protetto, dato che lui stesso si sentiva in balia di forze negative che lo perseguitavano.
Se io fossi stato tuo padre e ti avessi visto in quella situazione, ti avrei portato via. Ti avrei detto: “non ti preoccupare di quelle persone che non sanno star bene e non ti preoccupare di star bene con loro; puoi stare con me”. So bene quanto hai sofferto. Accetta questo dolore e convivi con esso. Esso è ineliminabile dalla tua storia, ma oggi quella storia è finita. Siamo qui, tu ed io, a ricordare il passato e a vivere la vita di oggi”.

GF. Bene. Hai guardato ciò che ti terrorizzava da bambino mentre avevi l’opportunità di sentirti sia il bambino di allora, sia l’adulto di oggi. Questo “compito” ti ha costretto a rinsaldare il rapporto con te stesso e la compassione per te.

M. Sono contento delle cose fatte a casa e qui con te. Mi sento meglio, ma non ancora bene. E’ come se fossi vicino a casa, ma non proprio a casa, davanti al camino.

GF. Secondo te, cosa manca al lavoro fatto fino ad ora?

M. … Forse … la visione d’insieme. So che mio padre mi spaventava, mi faceva arrabbiare e mi faceva sentire solo, senza un appoggio. So che mia madre mi accoglieva, ma poteva anche allontanarmi gettandomi nella disperazione. Non credo ci sia molto da capire: ciò basta e avanza, ma mi manca l’idea del tutto. Ho pianto per i pezzi, ma non per l’insieme.

Suggerisco a Marco di lavorare con la tecnica EMDR (senza seguire tutti i passaggi del protocollo) sul suo stato d’animo di queste settimane, lasciando che affiorino varie formulazioni della sua convinzione negativa su se stesso e varie immagini della sua infanzia. Abbiamo ancora mezz’ora e quindi possiamo almeno iniziare il lavoro e vedere se ci porta elementi significativi per ottenere la “visione di insieme” che Marco cerca.
Dopo aver messo a fuoco specifici momenti delle sfuriate del padre e degli atteggiamenti di rimprovero della madre, Marco mostra una commozione che gradualmente si espande fino a diventare un pianto profondo. Allunga la mano per stringere la mia e lo sento molto vicino in un momento delicato in cui probabilmente tocca il dolore da cui era fuggito svalutandosi. Quando l’emozione si placa, Marco apre gli occhi e mi parla.

M. Il quadro d’insieme … Ho visto il quadro d’insieme. La compassione: quella è l’emozione che ho sentito.

GF. Vuoi dirmi di più?

M. Sì, certo. Mia madre a volte cambiava e mi sembrava che andasse “via da me”. Mi guardava come se non fossi più lo stesso e io mi sentivo cattivo. La cosa più brutta non era il suo giudizio, l’aggettivo che usava per allontanarmi, ma un’altra cosa: sottolineava che la facevo star male. Questa era la colpa, e per essa mi consideravo cattivo e mi sentivo morire dentro: mi sentivo responsabile di come si sentiva lei. Ero piccolo e non potevo dire che si sentiva male perché era nevrotica. La mia colpa era quella: lei era buona e io ero così cattivo da farla star male.
Ma, porca miseria, lei faceva stare male me! Lei non aveva il coraggio di vivere meglio la sua vita e dovevo essere io a renderla felice!
Poi ho rivisto mio padre. Non erano solo i suoi scatti di rabbia che mi disturbavano, ma anche il suo lamentarsi, il suo rimproverarmi per delle cazzate di cui nemmeno mi ero accorto. Il succo del suo discorso era “mi crei dei problemi” oppure “mi complichi le cose”, quando sbottava dicendo che dovevo “stare più attento”. E non ero certo un figlio che gli incasinava la vita: era lui che ogni tanto faceva delle scelte di lavoro di cui si pentiva. Io al massimo rompevo qualcosa. “Ma perché non stai attento?!” Che domanda del cazzo: mica uno si scrive sul calendario “oggi non devo rompere quel fottuto vaso”!
La visione d'insieme è questa: mio padre non riusciva a colpevolizzarmi, perché mi faceva subito incazzare. Se non altro, guardando mia madre vedevo come si affrontano le cose: si ragiona e si valutano i fatti. Lui sembrava il bambino della casa. Mi mancava la sua guida. Avrei davvero voluto la sua guida. Ne abbiamo già parlato e ci ho già pianto sopra. Però quando faceva così mi arrabbiavo. Il guaio veniva dopo. Se gli rispondevo, scoppiava la bomba silenziosa, non quella paterna, ma quella materna. Appena litigavo con mio padre, mia madre mi guardava come se avessi rubato in chiesa e lì mi sentivo morire, perché non sapevo che fare. Ero stufo delle lagne di mio padre, ma ero terrorizzato dall’idea di essere considerato da mia madre come un criminale perché mi ero rotto i coglioni. Lì ero in stallo e ne uscivo accettando da qualche parte che forse ero cattivo: non si fanno cose che deludono papà e fanno soffrire la mamma. Questo è l’insieme. L’insieme è la mia sofferenza che non importava a nessuno.

GF. Mi spiace. Credo di capire quella solitudine. Tu da bambino avevi paura delle maledizioni e io dell’inferno, del diavolo e di fare sacrilegio. Mi spiace per entrambi.

M. Non so cosa facessi tu, ma io finivo per cercare di "riabilitarmi". Andavo a fare le scuse a papà, guardando se mia madre cambiava faccia. Non mi tornavano i conti. Mi sembrava una farsa, ma un po’ ci credevo. E mi sentivo sempre in pericolo: se mi distraevo diventavo un mostro.

GF. Se ti fossi sentito a posto in quella gabbia di matti ti saresti sentito solo. La verità però è proprio il fatto che eri solo. Dovevi cedere per non sentirti schiacciato dalla solitudine.

M. Io spero di non far mai sentire così i miei figli, se ne avrò. Però oggi non voglio lasciarmi solo. E che si fotta anche Giuseppe. Me le faccia lui le scuse per i casini che ha combinato. Dopo mi scuserò per averlo offeso. Non si possono fare casini per poi ribellarsi al fatto che la gente si incazza. Io posso lavorare sulla mia rabbia, ma lui non può dirmi che ho tradito l’amicizia. Queste stronzate sul tradimento mi ricordano tanto quelle di mia madre e francamente “ho già dato”. Non vorrei che ci fosse quel muro che ha tirato su, però tocca a lui demolirlo.

GF. Come ti senti?

M. Bene. Davvero bene. Anche triste, ma libero.

Sono passati due anni e mezzo da questa seduta e dalla conclusione del percorso analitico di Marco. Ho recentemente contattato Marco per chiedergli il permesso di pubblicare le lettere che mi aveva lasciato. Nell’occasione mi ha confermato che non si è più trattato male e che nei momenti difficili ha ripensato a sé con compassione, ritrovandosi piccolo e grande, disperato e forte e comunque amico sincero di sé.


7. Sessualità e intimità

La sessualità è gioco e ricerca del piacere; è però  anche un’occasione di intimità. La difficoltà di un discorso sensato sul sesso deriva dal fatto che il tema è da sempre trattato soprattutto secondo due angolature. La prima, di tipo morale (e quindi difensiva) mira a definire cosa sia da considerare accettabile o inaccettabile nell’ambito della sessualità in base a qualche principio ritenuto assoluto o a qualche tradizione culturale ritenuta immodificabile. La seconda, di tipo psicologico-sessuologico (egualmente difensiva) mira a definire cosa sia da considerare “sano” o “patologico” soprattutto sulla base degli schemi culturali prevalenti. Infatti, le valutazioni sessuologiche mutano in relazione al mutare di tali schemi.

Credo che una buona teoria della sessualità non dovrebbe dipendere da una particolare tradizione etica e nemmeno dalle ideologie prevalenti nella società. Dovrebbe invece confrontare i comportamenti sessuali con le potenzialità delle persone relative all'appagamento fisico e psicologico. Se un comportamento sessuale produce un appagamento modesto o circoscritto e non consente un coinvolgimento emozionale con il/la partner è a mio parere, da considerare un comportamento sessuale repressivo. Non “peccaminoso”, né “innaturale”, né “patologico”, ma repressivo, anche se legittimato culturalmente.
Ciò che conta è capire se un comportamento consente ad una persona di esprimersi compiutamente o se blocca qualche espressione individuale per motivi in ultima analisi riconducibili alla paura di sentire emozioni troppo intense. Tale paura si origina nell’infanzia e produce convinzioni, desideri, emozioni e sintomi che servono solo a limitare il contatto emotivo. Le difese psicologiche, quindi, non sono da intendere come "meccanismi", ma come strategie di fuga dal contatto con le emozioni. Per non sentire il dolore i bambini costruiscono convinzioni, desideri, atteggiamenti che alterano il complessivo contatto con la realtà. Tali difese restano attive nella vita adulta perché inconsce e incidono negativamente anche sulla possibilità di sperimentare gioia e felicità. Inevitabilmente disturbano o limitano l’ambito della sessualità e generano concezioni irrazionali della sessualità.

La ricerca del piacere sessuale con un/una partner si sviluppa in vari modi che comunque rientrano in un modello generale: si sente il desiderio, si manifesta il desiderio all’altra persona, si inizia a provare piacere nel contatto fisico, si avvia una fase di “gioco” in cui l’eccitazione piacevole cresce, si raggiunge un punto in cui tale eccitazione deve necessariamente essere scaricata, si giunge quindi ad un'intensa scarica, anche motoria, della tensione accumulata; si sperimenta infine, dopo l’orgasmo, una sensazione di appagamento fisico e psicologico e di profonda intimità con l’altra persona.
Spesso non si fa distinzione fra un acme e un orgasmo, ma tale distinzione è importante, perché l’orgasmo consente una completa scarica dell’eccitazione e soprattutto la realizzazione di una compiuta intimità con il/la partner. Nell’acme si ha una scarica piacevole dell’eccitazione accumulata nei preliminari, ma tale scarica è “localizzata”, cioè riguarda solo i genitali. Nell’orgasmo si hanno invece sensazioni e movimenti involontari che riguardano tutto il corpo e che si accompagnano ad una temporanea alterazione (o “perdita”) della coscienza vigile. In pratica nell’orgasmo una persona “si lascia andare” alle proprie sensazione ed al/alla partner: rinuncia al controllo e “si fida” del proprio corpo e della persona con cui sta. Nella donna, l’orgasmo coinvolge anche la clitoride, ma si genera più in profondità, cioè nella vagina. Lo sviluppo dell'orgasmo è identico negli uomini e nelle donne anche se è spesso frenato (in modi simili o diversi) negli uomini e nelle donne.
Tutti gli imbarazzi, i timori, i calcoli, l’interesse per il risultato della “prestazione” anziché per l’esperienza in corso, ostacolano la crescita dell’eccitazione. In tali casi il desiderio sessuale è subordinato ad altri desideri, essenzialmente di tipo difensivo: il desiderio di “meritare” l’accettazione o di nascondere la dipendenza affettiva. Lo stato d’animo dopo un rapporto sessuale soddisfacente è quello della gratitudine nei confronti del/della partner che è stato/a sia un “oggetto” sessuale desiderato, sia un soggetto partecipe e accogliente.

Il percorso che conduce all’orgasmo è identico nei maschi e nelle femmine. In questo senso, l'eguaglianza fra i generi è un dato di fatto, non un ideale. Le “tipiche” specificità attribuite alla femminilità o alla virilità sono pregiudiziali e riguardano semmai tendenze repressive culturalmente veicolate in direzioni diverse negli uomini e nelle donne.
La sessualità è una ricerca attiva del piacere sia per l’uomo che per la donna. L’aggressività maschile del “penetrare” corrisponde pienamente all’aggressività femminile del “prendere” e la tenerezza femminile dell’accogliere corrisponde pienamente alla tenerezza maschile del cercare accoglienza. Anche su altri piani sono divenuti luoghi comuni dei veri e propri equivoci. Non c’è alcun motivo per pensare che le donne siano più coinvolte emotivamente degli uomini nei rapporti sessuali. E’ solo un fatto culturalmente (repressivamente) indotto la prevalenza dell'emotività (in genere di un'emotività "complicata") nelle donne e del distacco emotivo negli uomini, ma in tali casi sia le donne sia gli uomini limitano il loro potenziale sessuale ed emozionale. Non ha nemmeno alcun fondamento l’idea che “l’uomo sia cacciatore” e che la donna sia ancorata all’ambito famigliare: se in una coppia c’è una buona intimità l’uomo non ha alcun bisogno di avventure e la donna non rinuncia a far sesso per "dedicarsi alla casa e ai figli". Nella stessa chiave di lettura va demistificata l’idea che la menopausa e l’andropausa annullino il desiderio sessuale e la capacità di godere.
Esperienze educative infantili, purtroppo normali ma troppo dolorose, portano i bambini a temere l’espressione di tutti i desideri nei rapporti interpersonali e, in seguito, anche nell'ambito della sessualità.
Possiamo distinguere l’esperienza del fare sesso da quella del fare l’amore, ma anche nella semplice "avventura" è presente un'intensa simpatia e quindi un po' d'amore. In assenza di tale sentimento il far sesso non è nemmeno  un reale incontro.

L'appagamento sessuale dipende dalla capacità di non temere emozioni intense e in particolare dalla capacità di non temere l’elaborazione del dolore. Per questo motivo, paradossalmente, per vivere delle esperienze sessuali gioiose ed appaganti occorre avere confidenza con il dolore e con il pianto.
Ovviamente non sto dicendo che il pianto debba accompagnare le esperienze sessuali, ma solo che più si è liberi di piangere, più si è liberi sessualmente. Non sto nemmeno dicendo che la tendenza a “piangersi addosso” o a “frignare” sia liberatoria sul piano emotivo e sessuale. Il pianto è un’esperienza fisica e psicologica purtroppo non comune che, non a caso, è raramente trattata dagli specialisti e, se viene presa in considerazione è compresa superficialmente. Dato che il dolore fa parte della nostra esistenza, più siamo impegnati a dissociarci dal dolore, meno siamo in contatto con gli stessi aspetti piacevoli della vita.

Persino a livello fisiologico le difese nei confronti della tristezza e del pianto hanno delle ricadute spiacevoli sul sesso. Quando stiamo piangendo sentiamo una pena “nel cuore” e sentiamo un’onda che sale agli occhi, li bagna e poi scende lungo il corpo scuotendoci nei singhiozzi. Nell’orgasmo la scarica dell’eccitazione parte dai genitali, sale e, scendendo, scuote più volte tutto il corpo. In pratica l’onda dei singhiozzi del pianto è molto simile a quella dell’orgasmo, anche se gli stati d’animo sono opposti, perché in entrambi i casi "ci si lascia andare" alle sensazioni. La paura del pianto attiva un’ipertonia muscolare cronica e questa “corazza” inevitabilmente interferisce con la liberazione dell’orgasmo. Le difese, purtroppo, non sono selettive: per bloccare il dolore, gli esseri umani "bloccano tutto". Se non attiviamo le difese psicologiche possiamo essere felici sia nei momenti di gioia, sia nei momenti dolorosi. Non dico che possiamo essere felici per il dolore, ma per il fatto di essere con noi stessi e di sperimentare benevolenza verso noi stessi nei momenti dolorosi. La felicità ci può quindi accompagnare nelle circostanze migliori come in quelle peggiori.

La libertà di fare sesso e, con la persona giusta, di fare l’amore, costituisce un ambito privilegiato di espressione di sé, di contatto interpersonale e di appagamento. Non esistono problemi specificamente sessuali, ma esistono problemi emozionali e quindi interpersonali che limitano o disturbano la sessualità. Credo che, in fondo, le persone vivano per costruire armonia e scambiare dolcezza con altre persone. Noi umani abbiamo fatto il salto evolutivo più grande: viviamo per realizzare dei sogni anziché "spinti" dai nostri istinti. Pur sentendo fame siamo capaci di fare sciopero della fame. E i nostri sogni dipendono dal nostro rapporto con noi stessi, dal nostro dialogo interno, dal rispetto con cui trattiamo i nostri desideri, le nostre emozioni e le altre persone.



8. Irrazionalità individuale e sociale

E’ passato molto tempo da quando credevo che “tutti assieme” potessimo sconfiggere pregiudizi e modelli culturali disumani. Da giovane credevo che le idee migliori potessero mettere in crisi quelle peggiori perché credevo che la ricerca di vere conoscenze, della libertà interiore e di cambiamenti rispettosi delle persone fosse la ricerca di tutti o almeno di molti. Non capivo che nella maggior parte dei casi le persone non vogliono mettere in discussione nulla, oppure rifiutano vecchi modelli sociali più per il bisogno di “opporsi al presente” che per il desiderio di costruire un futuro. Per costruire ci vuole compassione, impegno, curiosità, mentre le masse non vogliono pensare o sentire. Preferiscono distrarsi o protestare. Se si attivano lo fanno per rabbia e per affermare in modi nuovi la vecchia contrapposizione fra “noi” e “loro”. E i leader più scadenti hanno successo proprio perché non sentono nulla e sanno come “coinvolgere” le masse nella grande festa del nulla. Non a caso tutti i movimenti politici giurano di tutelare maggioranze silenziose o minoranze perseguitate, ma non cercano mai di tutelare i bambini. Credo che il disinteresse della politica per i cittadini più piccoli e più fragili dipenda dal fatto che politici, intellettuali e psicoterapeuti non immaginano nemmeno la normale sofferenza dei bambini. Inoltre, anche se immaginassero tale strage degli innocenti non potrebbero certo coinvolgere le masse in un progetto senza nemici esterni alle masse stesse.

Negli anni dedicati all’analisi delle mie difese psicologiche e delle difese psicologiche di tanti clienti ho capito gradualmente, ma con sempre maggior chiarezza, che le persone sono davvero inconsapevoli della loro distruttività. Non solo: riescono a stare davvero male pur di non sentire il loro dolore. Non c’è quindi un solo motivo ragionevole per colpevolizzare le persone più ottuse, reazionarie o confusamente progressiste. Stanno davvero facendo del loro meglio, anche se generano sofferenza inutile. Non c’è un solo petroliere o terrorista o “maschilista” o bigotto che faccia del male senza tagliarsi le ali. Chi fa del male resta aggrappato alla banalità del potere, dell’ordine, della paura e della rabbia, guastando sia la propria vita, sia la vita delle altre persone e soprattutto delle persone ancora in formazione. E chi si oppone alle ingiustizie senza capirne le radici profonde non favorisce reali cambiamenti.

Molte persone coprono la pressione del dolore negato con difese severe, compatte e ideologizzate. A quel punto poco conta che i nemici individuati siano “i peccatori” da convertire o i reazionari da sconfiggere o i maschilisti da contrastare. Ciò che conta è che resti intatto un argine fra “noi e loro” ove “loro” rappresentano ciò che non è “accettabile”.
Quando le difese psicologiche elementari vengono associate a “valori” assoluti, chi si attiva socialmente (o magari si limita a chiacchierare rabbiosamente) non è più “raggiungibile”. E’ come una macchina in folle che procede in una discesa. Le difese psicologiche possono diventare anche rigidità mentale "terapeutica" e generare "procedure" volte a "placare" particolari sintomi senza sfiorare il dolore dell'esistenza. Anche l'ideologizzazione "sanitaria", purtroppo, rende impossibile un confronto sui fatti e soprattutto sui fatti dolorosi che sono temuti come nell'infanzia.
L’etica accomuna, come difesa razionalizzata, i potenti e gli oppressi, i persecutori e le vittime. L’etica ostacola la conoscenza, schiaccia la compassione e porta a combattere “contro” qualcuno e non “per qualcosa”. E la psicoterapia "sta a guardare" questo orrore per dedicarsi a problemi circoscritti e per mantenere un ruolo "riconosciuto" in una società che non è una comunità e che non "riconosce" il dolore che rende gli esseri umani fratelli in un'avventura condivisa.

Ho iniziato la mia ricerca chiedendomi come fossero possibili le manifestazioni sociali più evidenti dell’irrazionalità e della violenza e ho cercato le prime risposte ragionando in termini di ingiustizia/giustizia o di oppressione/libertà. Ho però cominciato, in seguito, a vedere nella mia analisi personale e nell’attività professionale, che le persone non sono “plasmate” dalla famiglia e dalla scuola, nel senso che non subiscono una manipolazione mentale superabile in seguito con la diffusione di idee migliori. Le persone non subiscono l’imposizione di particolari idee (che, anzi, spesso nell'adolescenza rimpiazzano con idee opposte, egualmente dogmatiche), ma subiscono rifiuti dolorosi. Subiscono svalutazioni o indifferenza o ricatti affettivi. Reagiscono al dolore costruendo delle difese intenzionali, anche se inconsce”, le quali riducono la loro capacità di sentire in generale.
E’ del tutto secondario che i bambini, una volta divenuti adolescenti o adulti, restino fedeli alle idee della famiglia o facciano proprie idee diverse o anche opposte, dato che comunque si aggrappano alle idee soprattutto per non capire e non sentire. In ogni caso affermano spesso le loro convinzioni con un'intransigenza dovuta alla necessità di attivare l’ansia e la rabbia e di evitare la consapevolezza dei loro bisogni e del loro dolore. Non vivono irrazionalmente "a causa del dolore che hanno subito", ma vivono irrazionalmente perché continuano ad attuare le proprie strategie difensive.

Sarebbe bellissimo che l’inconscio si riducesse a qualche "complesso" o a qualche "disturbo" che può essere messo a posto con una “terapia” praticata da professionisti riconosciuti da una società razionale. Purtroppo l’inconscio è più esteso e radicato. L’inconscio è anche l’illusione che la normalità sia ragionevole e che pochi disturbi psichici possano essere curati. L’inconscio è una cultura diffusa che copre il dolore dell'esistenza e quindi ostacola la gioia e la felicità. L’inconscio è l’oblio del grande mondo in cui siamo immersi per una manciata d’anni e in cui potremmo nuotare e volare, ma in cui restiamo incatenati ad un palo ringhiando verso chi ha la pelle diversa dalla nostra o in cui strisciamo per rubare la marmellata a qualcuno anziché dividere la nostra con i nostri fratelli. L’inconscio è un cristianesimo divenuto istituzione perché la fratellanza non appassiona nessuno. L’inconscio è un socialismo immaginato da pochi, delegato ai burocrati e mai realizzato. L'inconscio è il potere politico esercitato da menti miserabili e appoggiato da persone indifferenti. L’inconscio è l’incapacità di amare divenuta normalità. L’aspetto più sconcertante del mio lavoro sta nella comprensione della facilità con cui le persone in un totale vuoto di coscienza fanno normalmente del male ai loro cari e accettano idee di cui non hanno alcuna comprensione.

Una cliente mi ha confidato di essere esasperata da suo marito e di non sopportare più la sua stupida arroganza. Le ho fatto notare che se è davvero stupido non c’è nulla da “sopportare” perché le mancanze non “pesano” e se invece egli fa lo stupido sicuramente non è cosciente di devastare la propria vita prima di recare disturbo agli altri ed anche a lei. Può restare con quell’uomo nonostante i suoi limiti oppure ritirarsi dal rapporto, ma non ha proprio nulla da “sopportare”. Mi ha risposto che senza quella rabbia si sentiva “nuda e infreddolita”.
Le persone che vedo nel mio studio sono “più” delle loro difese psicologiche. Coprono la loro bellezza mostrando ciò che non sono, in perfetta buona fede e senza averne coscienza. Non solo: anche le altre persone, quelle che scrivono libri, che vanno in TV o che riempiono le piazze sentono “poco” come i miei clienti, proprio perché sono altrettanto sensibili ma altrettanto dissociate. I personaggi pubblici incredibili (nel senso di “non credibili”) che catturano l’attenzione e la simpatia di milioni di persone, sanno o non sanno ciò che fanno? Io credo che non lo sappiano. Certo sanno di mentire e di ingannare la gente, ma non possono sapere per quale motivo si agitino tanto per peggiorare il mondo. E le masse che hanno bisogno di ammirare i loro leader o di indignarsi per le cose che “non dovrebbero accadere” non possono sapere perché accettano questo massacro collettivo.

Credo che un filo rosso colleghi tutti gli aspetti difensivi della nostra vita. Iniziamo da piccoli a “stare ai margini” per non essere derisi o a “metterci al centro” per essere “visti” e diventiamo persone accondiscendenti o arroganti, competitive o distaccate, sessualmente represse o sessualmente “agitate”. Perdiamo le lacrime, la capacità di esprimerci, la curiosità, la compassione per noi stessi e la benevolenza. Ci aggrappiamo all’idea che possiamo “liberarci” o “affermarci” o “rilassarci”, ma in realtà facciamo di tutto per sentire poco. Dopo venti o settant’anni rischiamo di trovarci alla fine di una vita non vissuta.
La mia consapevolezza del potenziale personale si è rafforzata con la quotidiana osservazione del fatto che il contatto con il dolore e l’accettazione delle lacrime consentono alle persone in analisi di rivelarsi spontanee, lucide, espansive, compassionevoli, impegnate, disponibili. Senza “sforzo”, senza “tensione etica”, senza “pentimenti” e senza “adesione a modelli socialmente accettati”. Ogni persona sboccia a modo suo, ma in modi sempre belli, commoventi e abbaglianti se affronta il dolore da sempre evitato.
All’inizio della mia ricerca speravo di trovare altre cose. Speravo di dare un piccolo contributo alla crescita di un grande abbraccio in una grande comunità fraterna. Tuttavia, anche se mi fa male vedere tanta distruttività cieca ed irrimediabile, mi rasserena toccare con mano ogni giorno alcuni aspetti della bellezza delle persone che nessuna manifestazione dell'irrazionalità sociale può annullare.


Conclusioni

La vita è sempre oggi e oggi abbiamo bisogno del nostro dolore per fare amicizia con noi stessi, per fare pace con le nostre mancanze e per superare il nostro antico senso di mancanza. L’irrazionalità individuale e sociale è, purtroppo, un aspetto della normalità e la normalità è un incubo. Fortunatamente è un incubo imperfetto. Anche le persone piene di odio amano qualcuno o qualcosa; anche le persone insensibili sono sensibili a qualcosa; anche le persone dogmatiche riconoscono qualche aspetto della realtà; anche le persone più svalutanti hanno momenti di compassione e anche le persone più superficiali hanno qualche slancio. Gli esseri umani cercano di cancellare la loro bellezza, ma questa non viene mai completamente cancellata.


Quali emozioni possiamo tollerare? Tutte.

E' disumano non aver mai paura. E’ umano fare ciò che vale la pena fare, anche se si ha paura.

Quando non si può evitare il dolore occorre entrarci in contatto e accettarlo come elemento costitutivo della nostra esperienza. Più il dolore ci sarà familiare, meno ci farà paura.

Per non soffrire a volte fingiamo di non desiderare ciò che ci manca e a volte ci illudiamo di poter mettere tutto a posto piegando gli altri o diventando “migliori”. Il dolore però resta, anche se sommerso. L'esistenza umana non è una cosa che possa essere “messa a posto”, perché è a posto così come è, con la gioia e con il dolore che comporta. Solo se viene accettata può essere conosciuta come una realtà preziosa in cui fare cose preziose, finché c'è tempo.

Essere amabili è un fatto. E resta tale anche se qualcuno non se ne accorge.

Quando si accetta di essere amabili per quel che si è, si comincia a rispettare la vita degli altri e a desiderare il contatto con gli altri. Poi capita di prenderci gusto.

Voler essere accettati da tutti è un'aspirazione molto diffusa e molto ingenua. Non possiamo fare nulla per essere davvero accettati dagli altri. Dipende solo da loro vedere la nostra bellezza o non vederla. L'unica cosa che possiamo fare è farci conoscere e scoprire cosa succede.

Il nostro tempo non è quello dell’orologio, ma il tempo che spendiamo esprimendo ciò che siamo e trattando con cura noi stessi e gli altri.

Se morendo avremo dei rimpianti, rimpiangeremo ciò che non abbiamo fatto, non ciò che non abbiamo ricevuto. Per questo possiamo essere grati per ciò che ci è stato donato, piangere per ciò che ci è mancato e costruire una vita veramente nostra.